Così, un giorno, all’inizio di marzo 2019, ho detto: “Basta, adesso i deportati da Asso Ventotto li cerco io”.
E l’ho fatto.

Questo è il diario della mia ricerca dei deportati dalla Asso Ventotto.

Inizio a cercare una mattina di marzo, dopo aver portato mia figlia all’asilo. Faccio il punto della situazione, dei pochi dati di cui dispongo. Pochissimi:

  • la data: 30 luglio 2018
  • il numero dei profughi: 101, compresi 5 donne e 5 bambini.
  • il nome della nave: Asso Ventotto
  • la bandiera della nave: italiana.

Non ho i nomi dei profughi. Sono trascorsi 8 mesi, potrebbero essere ancora nei campi di concentramento governativi della Libia. Oppure in Niger, in Tunisia. Ovunque.

Sto cercando un ago in un pagliaio che va a fuoco.

Nel frattempo…

Si parla tanto di Libia sui giornali e, finalmente, in televisione. Francesca Totolo, la blogger che l’anno scorso inventò la bufala sullo smalto di Josefa, torna alla carica e pubblica un articolo su un sito internet di estrema destra. Scrive “Nei centri libici gli immigrati non subiscono torture ” e intervista una della associazioni che ha vinto “il bando della vergogna (bando Minniti). Sui fondi italiani elargiti ai campi governativi libici ne so parecchio, il romanzo che ho scritto nel 2018, Solidarancia, tratta proprio di questo e ho fatto moltissime ricerche. Così ci metto 10 minuti a scrivere un articolo di risposta al suo.

Ma voglio fare di più: voglio trovare chi sia stato nei campi finanziati dall’Italia e ascoltare dalla sua voce il racconto delle violenze e delle torture lì subite.

Lo faccio.

AGGIORNAMENTO: Oggi potete ascoltare direttamente queste testimonianze nell’ottimo servizio de Le Iene che si intitola “Migranti raccontano di torture nei centri della Libia finanziati dall’Italia attraverso ONG.

Grazie ad un avvocato, la grandissima Giulia Tranchina, e a diverse reti di attivisti per i diritti umani, trovo facilmente persone recluse nei campi che mi interessano, e anche in altri. Sono ragazzi e ragazze, molto più giovani di me, alcuni minorenni.

Dentro i campi c’è qualche telefono, quelli non ancora rubati dalle guardie libiche. I ragazzi li tirano fuori di notte. Così passo le notti ad ascoltare le loro storie, le loro sofferenze.

Di giorno invece studio molto. E scrivo molto. Inizio a capire come funzionano i “centri di detenzione libici”, smetto quasi subito di chiamarli così, adotto il termine “campi di concentramento”, che è più corretto, faccio una lista di persone che vi sono morte, raccolgo testimonianze atroci sulle  torture vi vengono praticate, sugli stupri, cerco di capire perché l’UNHCR faccia poco o niente, imparo a reperire dati, a leggere i report…

I report di UNHCR e IOM.  

La mia denuncia è netta: in questi report non compaiono MAI notizie su persone morte nei lager libici. Eppure ne sono morte tante, tantissime.

UNHCR e IOM pubblicano un report al mese e contano tutto (tranne i morti): uomini, donne, bambini, neonati, donne che allattano, donne incinte…

Donne incinte!

Salto sulla sedia. Io non ho dimenticato: sulla Asso Ventotto, il 30 luglio 2018, c’erano 5 donne incinte.

Improvvisamente il pagliaio si restringe. Vado a ripescare i report dell’estate 2018, li confronto con quelli del mesi precedenti, ed eccole là, le cinque donne incinte! A Tarek al Mattar il numero di donne incinte aumenta di 5 da un mese all’altro. Saranno loro?

C’è un problema: Tarek al Mattar è stato sgombrato il 4 settembre 2018 dopo un attacco armato da parte di milizie ostili al governo di Serraj. Le persone trasferite in altri campi.

Sono settimane che parlo con un ragazzo eritreo che nell’estate 2018 era lì. Ora, con alcuni suoi amici, è riuscito ad arrivare in Tunisia. Sta tutto il giorno chiuso in casa, esce solo per comprare da mangiare, la Tunisia è un luogo pericoloso per gli stranieri, anche lì possono divenire preda di altri trafficanti di uomini. La protezione dell’UNHCR è minima e sta terminando.

Il ragazzo (che chiamerò Amil) e i suoi amici hanno subito allucinanti violenze in Libia, proprio nei centri governativi come Tarek al Mattar. Nell’estate 2018 erano lì assieme a 1770 persone.

Non si ricorderanno mai dei 101 di Asso Ventotto, penso. Eppure chiedo. Perché io ed Amil parliamo di tutto ormai: del passato, del futuro, di musica, di chi è riuscito a salvarsi, di chi è ancora nell’inferno libico e di lui, che è nel limbo tunisino. Così, chiedo anche dei deportati dalla Asso Ventotto.

– Do you remember?

La domanda l’ho fatta tantissime volte e sono ormai abituata alla risposta negativa.

– Yes

– Yes?

Non ci voglio credere.

– Yes, I remember.

Per la prima volta ho trovato qualcuno. In un mondo che ha totalmente perso la memoria, c’è un ragazzo che ricorda! In realtà più di uno: tutti i miei amici in Tunisia rammentano perfettamente le 101 persone che arrivarono a Tarek al Mattar nell’estate 2018. Raccontavano di essere stati deportati da una nave italiana.

Mi sento come davanti ad un miracolo: incredula e in estasi.

Attendo qualche secondo prima di porre la domanda successiva:

– Dove sono finiti il 4 settembre?

I miei amici lo sanno. Gli uomini sono stati portati quasi tutti in un campo terribile che chiamerò, per comodità, LagerD e le donne in un luogo altrettanto atroce che chiamerò LagerM.

Non ho nessun contatto a LagerM. A LagerD invece scrivo ad un ragazzino eritreo. In questa storia lo chiamerò Ato Solomon, come il personaggio del mio romanzo, sperando che questo nome gli porti fortuna. Il giovane Ato parla pochissimo l’inglese e non riesce a comunicare bene neanche con il suo avvocato. Siamo riusciti fino ad ora a scambiarci dei saluti, delle foto e dei messaggi affettuosi. Lui mi scrive “Help me, Sarita” e io, in qualche modo, mi sento sollevata dal non conoscere la sua lingua per potergli scrivere che non ho la minima idea di come aiutarlo. A lagerD ci sono più di 600 persone e Ato, giovane e spaventato, non è la persona giusta per mettersi a cercare i deportati di Asso Ventotto. Penso.

Amil ha un contatto a lagerD, un ragazzo che parla inglese. Può passargli il mio numero. Esco a prendere mia figlia a scuola.

Quando torno mi chiama un amico di Amil, da un numero che non conosco. E’ successa una brutta cosa: Amil è uscito a comprare il pane e lo hanno aggredito. Per fortuna è riuscito a scappare, ma gli hanno rubato il cellulare.

Parlo con Amil. E’ choccato e triste. Quel telefono era l’unica cosa che aveva, l’unico contatto con la sua vita di prima, quando era ancora a casa con la sua famiglia, prima della fuga, del deserto, della Libia. Tutto perduto. Anche, ovviamente, il contatto con il ragazzo di LagerD. Ma questo è l’ultimo dei problemi ora. La vita in Tunisia è diventata troppo pericolosa per Amil e i suoi amici. Ho già contattato tutte le organizzazioni che fanno corridoi umanitarie ed è stato un giro molto breve: ce ne sono solo 3 e hanno corridoi solo dal Libano e dall’Etiopia, entrambi paesi dove è impossibile trasferire Amil e i suoi amici. Cerco di farmi venire altre idee, visti di studio, permessi umanitari. Ma niente pare efficace.

Nel frattempo fremo. Ho finalmente una traccia sui deportati di Asso Ventotto. Provo a scriverlo ad Ato Solomon, ma non capisce cosa sto cercando.

Amil, in Tunisia, è ancora triste. Non esce di casa. Usa il cellulare dei suoi amici. Chiacchieriamo di musica. Lui suona e compone. Parliamo dei suoi studi. Ha un diploma di scuola superiore ma non ha potuto fare l’università. I ragazzi eritrei non la possono fare: devono scegliere tra il servizio militare a tempo indeterminato e la fuga nel deserto. Due uniche opzioni.

In questo limbo tunisino, Amil accetta di aiutarmi a comunicare con il giovane Ato. Li metto in contatto. Si parlano tramite file audio. Ato è felicissimo di poter parlare con un ragazzo di poco più grande di lui che sia riuscito ad uscire dall’inferno libico. Per andare in un limbo, occhei, ma meglio il limbo dell’inferno.

Qualche ora dopo, Amil mi chiama. Ato Solomon ha raccontato tutta la sua storia.

Il giovane Ato Solomon racconta che quando era ancora minorenne, nell’estate 2018, è stato deportato in Libia da una nave italiana, dice che è bianca e rossa chiara e che si chiama “Napoli Ssevantaoto”.

Asso Ventotto? Il ragazzino con cui mi scambio messaggetti da settimane era su Asso Ventotto???

Una parte di me non ci crede. Ecco, pensa, questi ragazzi mi stanno raccontando ciò che voglio sentire!

L’altra parte riflette. Ad Amil ho detto che cerco i profughi che erano su una nave chiamata Asso 28 (l’ho scritto a numeri). Non ho mai usato la parola “Napoli”.

L’avranno trovata su internet, suggerisce la parte complottista e incredula del mio cervello.

Se così fosse, perché storpiare il nome della nave? Lo avrebbero scritto giusto.

E poi ricordo. Vado a controllare, ma lo ricordo: Ato non è stato deportato il 30 luglio 2018. Io so la data del suo arrivo in Libia dal mare. Me l’ha scritta più volte in passato. La conosce anche il suo avvocato. Non è quella.

Possibile che sia sbagliata? No, per due motivi:
1) era alcuni giorni prima del suo compleanno. Ato era ancora minorenne.
2) questi ragazzi tengono sempre ben impressa nell’anima la data della loro cattura.

Il capitano ci ha detto: “Adesso dormite. Domattina vi sveglierete in Italia”.
Abbiamo dormito.
La mattina è apparso il porto di Tripoli.

Questo racconta Ato, in un lungo file audio, nella sua lingua. Amil me ne manda una copia. A Roma chiamo un amico eritreo, me lo traduce parola per parola, lo registro. Lo ascolto più volte, anche da sola, mentre cammino su e giù per la stanza cercando di non demolire il castello in lego per terra, edificato da mia figlia.

Adesso Dormite. Diceva il capitano.

A dormire io non ci penso proprio. Una storia così, non la inventi. Una storia così, puoi raccontarla soltanto se l’hai vissuta. Da vittima.

Io ci credo.

E faccio bene. Perché è una storia vera.

Passo i giorni successivi a svolgere capillari e frenetiche indagini. Contatto il resto dei deportati, a LagerD e in altri campi, in Niger, ovunque ne trovo. Raccolgo le loro testimonianze. Tutte coincidono. Faccio elenchi di nomi, date di nascita, fotografie. Storie.

Alla fine trovo la prova. E’ un report della cosiddetta guardia costiera libica, dichiara che una nave Asso è intervenuta in mare proprio il giorno che ha detto Ato, proprio nel punto che ha indicato Ato. Nessuno, in Italia, lo aveva notato? Evidentemente no. Io l’ho trovato soltanto perché sapevo in che data cercarlo. Io l’ho trovato soltanto perché ho il vizio di parlare con le persone.

Ecco come ho scoperto una nuova deportazione operata con una nave italiana.

Una storia sconosciuta alla stampa, sconosciuta a tutti.

E adesso?

La prima cosa da fare è trovare dei bravi avvocati che si occupino di far valere i diritti delle vittime.

La seconda è contattare Danilo Risi e il gruppo che ha fatto l’esposto per il caso del 30 luglio 2018.

Fatto e fatto.

A ora?

Dove pubblico tutte le prove, tutte le testimonianze, tutta la ricostruzione delle sofferenze, della vita e della morte delle persone che sono salite su una nave italiana e sono state da essa deportate in Libia?

Sul mio piccolo blog?

CONTINUA, SICURAMENTE CONTINUA


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Questo articolo ha 2 commenti

  1. Ciao, innanzitutto complimenti per il tuo blog e soprattutto per l’impegno. A volte mi sembra di vivere in un mondo arido, disumano, incapace di comprendere il dolore degli altri. Invece poi si incontrano persone come te che, senza voler essere eccessivo, ridanno speranza.
    Un amico mi ha segnalato il tuo appello lanciato su twitter rivolto a qualcuno che parli arabo. Io sono un interprete di conferenza, ma non di arabo, di inglese, ma studio arabo con grande passione da 15 anni. Non so se riesco ad aiutarti, dovrei capire di che tipo di materiale è e entro quando ti serve. Ahimé maggio e giugno sono mesi per me pieni di lavoro.
    Ma mi piacerebbe aiutarti.

    1. sarita

      Grazie Giorgio
      per i complimenti e per l’offerta di aiuto.
      Ti scrivo in privato e ti mando tutto.

      Sarita

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