Dopo la sentenza definitiva, il Governo italiano non può più deportare nei lager libici con le sue navi militari. Così cerca altri sistemi (illegali): usa in segreto navi cargo, finanzia e addestra i criminali delle milizie libiche. E’ l’inizio di una triste storia…
OPINIONE CONCORDANTE DEL GIUDICE
PINTO DE ALBUQUERQUE
(Traduzione)
La causa Hirsi verte da una parte sulla protezione internazionale dei rifugiati e, per altra parte, sulla compatibilità delle politiche in materia di immigrazione e di controllo delle frontiere con il diritto internazionale. La questione fondamentale che si pone nel caso di specie è sapere come l’Europa debba riconoscere ai rifugiati “il diritto di avere diritti” per riprendere le parole di Hannah Arendt1. La risposta a questi problemi politici estremamente sensibili si trova nel punto di intersezione tra il diritto internazionale dei diritti umani e il diritto internazionale dei rifugiati. Benché io sottoscriva la sentenza della Grande Camera, desidero analizzare la causa nel contesto di un approccio di principio completo che tenga conto del nesso intrinseco esistente tra queste due branche del diritto internazionale.
Il divieto di respingere i rifugiati
Il divieto di respingere i rifugiati è previsto nel diritto internazionale dei rifugiati (articolo 33 della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati (1951) e articolo 2 § 3 della Convenzione della Organizzazione dell’unità africana che disciplina determinati aspetti del problema dei rifugiati in Africa (1969) ), nonché nel diritto universale dei diritti dell’uomo (articolo 3 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura (1984) e articolo 16 § 1 della Convenzione internazionale delle Nazioni unite per la protezione di tutte le persone contro le sparizioni forzate (2006)) e nel diritto regionale dei diritti dell’uomo (articolo 22 § 8 della Convenzione americana sui diritti dell’uomo (1969), articolo 12 § 3 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (1981), articolo 13 § 4 della Convenzione interamericana sulla prevenzione e repressione della tortura (1985) e articolo 19 § 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000)). Se la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non contiene un esplicito divieto di respingimento, questo principio tuttavia è stato riconosciuto dalla Corte come un andare al di là della garanzia analoga prevista dal diritto internazionale dei rifugiati.
In virtù della Convenzione europea, un rifugiato non può essere respinto né verso il suo paese di origine né verso qualsiasi altro paese dove rischi di subire un danno grave provocato da una persona o da una entità, pubblica o privata, identificata o meno. L’atto di respingere può consistere in una espulsione, una estradizione, una deportazione, un allontanamento, un trasferimento ufficioso, una “restituzione”, un rigetto, un rifiuto di ammissione o in qualsiasi altra misura il cui risultato sia quello di obbligare la persona interessata a restare nel suo paese di origine. Il rischio di danno grave può derivare da una aggressione estera, da un conflitto armato interno, da una esecuzione extragiudiziaria, da una sparizione forzata, dalla pena capitale, dalla tortura, da un trattamento inumano o degradante, dal lavoro forzato, dalla tratta degli esseri umani, dalla persecuzione, da un processo basato su una legge penale retroattiva o su prove ottenute tramite tortura o trattamenti inumani e degradanti, o da una “flagrante violazione” della essenza di qualsiasi diritto garantito dalla Convenzione nello Stato di accoglienza (respingimento diretto) o dalla ulteriore consegna dell’interessato da parte dello Stato di accoglienza a uno Stato terzo all’interno del quale esiste tale rischio (respingimento indiretto)2.
Di fatto, l’obbligo di non respingimento può essere innescato da una violazione o da un rischio di violazione dell’essenza di qualsiasi diritto garantito dalla Convenzione europea, come il diritto alla vita, il diritto all’integrità fisica o al suo corollario, il divieto della tortura e dei maltrattamenti3, o dalla “flagrante violazione” del diritto ad un processo equo4, del diritto alla libertà5, del diritto alla vita privata6 o di qualsiasi altro diritto garantito dalla Convenzione7.
Questo principio si applica anche al diritto universale dei diritti dell’uomo, alla luce della Convenzione contro la tortura8, della Convenzione sui diritti dell’infanzia9 e del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici10. Nello stesso spirito, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dichiarato che “nessuna persona sarà inviata o estradata di forza verso un paese quando vi siano ragioni valide per temere che in questo paese rimarrà vittima di un’esecuzione extragiudiziaria, arbitraria o sommaria”11 e che “nessuno Stato espelle, respinge, o estrada una persona verso un altro Stato se vi sono fondati motivi per credere che in questo altro Stato rischierà di rimanere vittima di una sparizione forzata”12.
Benché la nozione di rifugiato contenuta nell’articolo 33 della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati sia meno ampia di quella ricavata dal diritto internazionale dei diritti umani, il diritto internazionale dei rifugiati si è evoluto assimilando la norma di tutela più ampia dei diritti umani, estendendo così la nozione di rifugiati che deriva dalla Convenzione (impropriamente chiamati rifugiati de jure) ad altri individui che hanno bisogno di una protezione internazionale complementare (impropriamente chiamati i rifugiati de facto). I migliori esempi di questa evoluzione sono forniti dall’articolo I § 2 della Convenzione della Organizzazione dell’unità africana, dall’articolo III § 3 della Dichiarazione di Cartagena del 1984, dall’articolo 15 della Direttiva 2004/83/EC del Consiglio dell’Unione europea del 29 aprile 2004 recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, e dalla Raccomandazione (2001) 18 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sulla protezione sussidiaria.
Comunque sia, né il diritto internazionale dei rifugiati né il diritto internazionale dei diritti umani fanno distinzione tra il regime applicabile ai rifugiati e il regime applicabile alle persone che beneficiano di una protezione complementare. Il tenore della protezione internazionale, soprattutto la garanzia del non respingimento, è rigorosamente la stessa per le due categorie di individui.13. Non vi è alcuna ragione legittima per offrire ai “rifugiati de jure” una migliore protezione di quella offerta ai “rifugiati de facto“, perché tutti hanno in comune uno stesso bisogno di protezione internazionale. Qualsiasi differenza di trattamento comporterebbe la creazione di una seconda classe di rifugiati, sottoposta a un regime discriminatorio. La stessa conclusione vale per le situazioni di afflusso massiccio di rifugiati. I gruppi di rifugiati non possono vedersi applicare uno status ridotto a causa di una eccezione al “vero” status di rifugiato che sarebbe “inerente” a una situazione di afflusso massiccio. Offrire una protezione sussidiaria minore (che implica ad esempio dei diritti meno ampi in materia di accesso al permesso di soggiorno, all’impiego, alla tutela sociale e alle cure sanitarie) alle persone che arrivano nell’ambito di un afflusso massiccio costituirebbe una discriminazione ingiustificata.
Un individuo non diventa un rifugiato perché riconosciuto tale, ma è riconosciuto tale perché è un rifugiato14. La concessione dello status di rifugiato è puramente declaratoria, il principio di non respingimento si applica a coloro che non hanno ancora visto dichiarare il loro status (i richiedenti asilo), ed anche a coloro che non hanno espresso il desiderio di essere protetti. Di conseguenza, la mancanza di una esplicita richiesta di asilo o il fatto che una richiesta di asilo non sia sostenuta da sufficienti elementi non possono esonerare lo Stato interessato dall’obbligo di non respingimento di fronte ad ogni straniero che ha bisogno di una protezione internazionale15. La mancanza di una richiesta di asilo o di elementi sufficienti a sostenere tale domanda non consente di trarre automaticamente una conclusione negativa dal momento che lo Stato ha l’obbligo di indagare d’ufficio su qualsiasi situazione che richieda una protezione internazionale, in particolare quando, come ha sottolineato la Corte, i fatti che costituiscono il rischio per il ricorrente “erano noti [prima del trasferimento di quest’ultimo] e facilmente verificabili da un gran numero di fonti”.
Benché l’obbligo garantito dalla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati comporti eccezioni che vanno ad incidere sulla sicurezza del paese e sulla sicurezza pubblica, non esiste alcuna eccezione di questo tipo nel diritto europeo dei diritti dell’uomo16 né nel diritto universale dei diritti dell’uomo17: Non vi sono limiti personali, temporali o spaziali alla sua applicazione. Così quest’obbligo si applica anche nelle circostanze eccezionali comprese quelle in cui è stato dichiarato lo stato di emergenza.
Poiché la determinazione dello status di rifugiato costituisce uno strumento essenziale per la protezione dei diritti dell’uomo, la natura del divieto di respingimento dipende dalla natura del diritto fondamentale così protetto. Quando esiste un rischio di danno grave che derivi da una aggressione estera, da un conflitto armato interno, da una esecuzione extragiudiziaria, da una sparizione forzata, dalla pena capitale, dalla tortura, da un trattamento inumano o degradante, dal lavoro forzato, dalla tratta degli esseri umani, dalla persecuzione, da un processo basato su una legge penale retroattiva o su prove ottenute tramite tortura o trattamenti inumani e degradanti nello Stato di accoglienza, l’obbligo di non respingimento costituisce un obbligo assoluto per tutti gli Stati. Di fronte al rischio di violazione di un qualsiasi diritto garantito dalla Convenzione europea (diverso dal diritto alla vita e all’integrità fisica e dal principio di legalità nel diritto penale) nel paese di accoglienza, lo Stato ha la possibilità di derogare al suo dovere di offrire una protezione internazionale, in funzione della valutazione della proporzionalità dei valori concorrenti in gioco. Esiste tuttavia un’eccezione a questo test di proporzionalità: quando il rischio di violazione di un qualsiasi diritto garantito dalla Convenzione europea (diverso dal diritto alla vita e all’integrità fisica e dal principio di legalità nel diritto penale) nel paese di accoglienza è “flagrante” e l’essenza stessa di questo diritto è messa in gioco, mentre lo Stato è inevitabilmente vincolato dall’obbligo di non respingimento
Dotato di questo contenuto e di questa estensione, il divieto di respingimento costituisce un principio di diritto internazionale consuetudinario che vincola tutti gli Stati, compresi quelli che non sono parti alla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati o a qualsiasi altro trattato di protezione dei rifugiati. E’ inoltre una norma di jus cogens: non subisce alcuna deroga ed è imperativa, in quanto non può essere oggetto di alcuna riserva (articolo 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, articolo 42 § 1 della Convenzione sullo status dei rifugiati e articolo VII§1 del Protocollo del 1967).
Tale è oggi la posizione prevalente anche nel diritto internazionale dei rifugiati18.
Così, le eccezioni previste dall’articolo 33 § 2 della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati non possono essere invocate nei confronti dei diritti dell’uomo essenziali non soggetti ad alcuna deroga (il diritto alla vita e all’integrità fisica e il principio di legalità in diritto penale). Inoltre, un individuo che rientri nella competenza dell’articolo 33 § 2 della Convenzione sui rifugiati beneficerà comunque della protezione offerta dalle disposizioni di diritto internazionale dei diritti umani più generose, come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le eccezioni in questione possono essere applicate unicamente ai diritti dell’uomo essenziali ai quali si può derogare dagli Stati parti alla Convenzione sullo status di rifugiati che non hanno ratificato trattati più generosi. Occorre ancora, in questo caso, che le eccezioni siano interpretate restrittivamente e siano applicate soltanto se le particolari circostanze della causa e le caratteristiche proprie dell’interessato mostrano che costui rappresenta un pericolo per la comunità o la sicurezza del paese19.
Il divieto di respingimento non si limita al territorio di uno Stato, ma si estende alle azioni extraterritoriali di quest’ultimo, soprattutto alle operazioni condotte in alto mare. Ciò vale in virtù del diritto internazionale dei rifugiati, come interpretato dalla Commissione interamericana dei diritti dell’uomo20, dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati21, dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite22 e dalla Camera dei Lord23, e in virtù del diritto universale dei diritti dell’uomo, come applicato dal Comitato ONU contro la tortura24 e dal Comitato ONU per i diritti umani25.
Alcuni noti esperti di diritto internazionale hanno adottato questo approccio26.
Il fatto che alcuni tribunali supremi, quali la Corte suprema degli Stati Uniti27 e la Corte suprema di Australia28, siano giunti a conclusioni diverse non è decisivo.
È vero che la dichiarazione del delegato svizzero nel corso della conferenza dei plenipotenziari, secondo la quale il divieto di respingimento non si applica ai rifugiati che arrivano alla frontiera, fu approvata da altri delegati, in particolare dal delegato olandese, il quale rilevò che la conferenza era d’accordo con questa interpretazione29. È anche vero che l’articolo 33 § 2 della Confezione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati esclude dal divieto di respingimento il rifugiato che costituisce un pericolo per la sicurezza del paese “dove si trova”, e che i rifugiati in alto mare non si trovano in alcun paese. Si potrebbe essere tentati di interpretare l’articolo 33 § 1 come se contenesse una analoga restrizione territoriale. Se il divieto di respingimento fosse applicato in alto mare, ciò avrebbe l’effetto di creare un regime speciale per gli stranieri pericolosi in alto mare, i quali beneficerebbero del divieto contrariamente agli stranieri pericolosi residenti nel paese.
Secondo me, con tutto il rispetto che devo alla Corte suprema degli Stati Uniti, l’interpretazione di quest’ultima contraddice il senso letterale e comune dei termini dell’articolo 33 della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati e si scosta dalle regole comuni che riguardano l’interpretazione di un trattato. Secondo l’articolo 31 § 1 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, una disposizione di un trattato deve essere interpretata secondo il senso ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto e alla luce del suo oggetto e del suo scopo. Quando il senso di un trattato emerge chiaramente dal suo testo letto alla luce della sua lettera, del suo scopo e del suo oggetto, le fonti complementari quali i lavori preparatori sono inutili30. La fonte complementare storica è ancor meno necessaria quando essa stessa manca di chiarezza, come in questo caso: il comitato speciale incaricato di redigere la Convenzione ha difeso l’idea che l’obbligo di non respingimento si estendesse ai rifugiati non ancora arrivati sul territorio31; il rappresentante degli Stati Uniti ha dichiarato nel corso dell’elaborazione dell’articolo 33 che poco importava se il rifugiato avesse varcato o no il confine32; il rappresentante olandese ha formulato la sua riserva unicamente in merito ai “grandi gruppi di rifugiati che cercano di accedere ad un territorio”, e il presidente della conferenza dei plenipotenziari ha semplicemente “deciso che conveniva prendere atto dell’interpretazione consegnata dal delegato dei Paesi Bassi” secondo la quale l’ipotesi di migrazioni massicce attraverso le frontiere sfuggiva all’articolo 3333.
Contrariamente all’applicabilità delle altre disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati, quella dell’articolo 33 § 1 non dipende dalla presenza di un rifugiato sul territorio di uno Stato. L’unica restrizione geografica prevista dall’articolo 33 § 1 attiene al paese verso il quale un rifugiato può essere inviato, e non al luogo da dove è inviato. In più, il termine francese “respingimento” ingloba l’allontanamento, il trasferimento, il rigetto o la non ammissione di una persona34. L’uso intenzionale del termine francese nella versione inglese non ha altro significato possibile che quello di sottolineare l’equivalenza linguistica tra il verbo return e il verbo respingere. Inoltre il preambolo della Convenzione enuncia che quest’ultima è volta ad “assicurare [ai rifugiati] il più ampio esercizio possibile dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, obiettivo che si riflette nel testo stesso dell’articolo 33, attraverso la chiara espressione “in qualsiasi modo”, che ingloba ogni tipo di azione dello Stato volta ad espellere, estradare o allontanare uno straniero che ha bisogno di una protezione internazionale. Infine, non è possibile trarre dal riferimento territoriale contenuto nell’articolo 33 § 2 (“paese in cui si trova”) alcun argomento che militi per il rigetto dell’applicazione extraterritoriale dell’articolo 33 § 1, perché il paragrafo 2 dell’articolo 33 prevede semplicemente una eccezione alla regola formulata al paragrafo 1. Questo “sconfinamento” dell’eccezione sfavorevole sulla regola favorevole sarebbe inaccettabile.
L’articolo 31 § 1 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati enuncia che una disposizione di un trattato deve essere interpretata in buona fede. E’ riconosciuto che la buona fede non è di per sé fonte di obblighi laddove non ne esistono altri35; fornisce tuttavia un mezzo prezioso per definire la portata degli obblighi esistenti, in particolare di fronte alle azioni ed alle omissioni di uno Stato che hanno l’effetto di aggirare gli obblighi convenzionali36. Uno Stato manca di buona fede nell’applicare un trattato non soltanto quando infrange, con azioni o omissioni, gli obblighi derivanti dal trattato, ma anche quando elude gli obblighi da lui accettati ostacolando il normale funzionamento di una garanzia che deriva da un trattato. Ostacolare con la forza il meccanismo che scatta con l’applicazione di un obbligo convenzionale significa ostacolare il trattato stesso, fatto contrario al principio di buona fede (criterio dell’ostruzionismo). Uno Stato manca di buona fede anche quando adotta al di fuori del suo territorio una condotta che all’interno sarebbe inaccettabile tenuto conto dei suoi obblighi convenzionali (criterio del “doppio standard”). Una politica di “doppio standard” basata sul luogo in cui essa è applicata viola l’obbligo convenzionale al quale è tenuto lo Stato in questione. L’applicazione di questi due criteri porta a concludere che le operazioni di rinvio effettuate in alto mare senza alcuna valutazione dei bisogni individuali di protezione internazionale sono inaccettabili37.
Un ultimo ostacolo al divieto di respingimento attiene al territorio di origine del richiedente asilo. La Convenzione delle Nazioni Unite sullo status di rifugiati richiede che l’interessato si trovi al di fuori del suo paese di origine, che sembra incompatibile con l’asilo diplomatico, perlomeno se si interpreta questa nozione conformemente al ragionamento prudente tenuto dalla Corte internazionale di giustizia nella causa sul diritto d’asilo38. Il diritto di chiedere asilo esige tuttavia l’esistenza del diritto complementare di lasciare il proprio paese in vista della richiesta di asilo. Ecco perché gli Stati non possono limitare il diritto di lasciare un paese e di cercare al di fuori di esso una protezione effettiva39. Benché nessuno Stato abbia l’obbligo di concedere l’asilo diplomatico, il bisogno di protezione internazionale è addirittura più impellente nel caso di un richiedente asilo che si trovi ancora nel paese in cui la sua vita, la sua integrità fisica e la sua libertà sono minacciate. La prossimità delle fonti di rischio rende ancor più necessaria la protezione delle persone che sono in pericolo nel proprio paese. Altrimenti il diritto internazionale dei rifugiati, almeno il diritto internazionale dei diritti umani impone agli Stati un obbligo di protezione in queste circostanze, e la mancata adozione di misure adeguate e positive di protezione costituisce a tale proposito una violazione. Gli Stati non possono fingere di ignorare gli evidenti bisogni di protezione. Se ad esempio una persona che rischia di essere torturata nel suo paese richiede l’asilo ad una ambasciata di uno Stato vincolato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, le deve essere concesso un visto di ingresso sul territorio di questo Stato, in modo da permetterle di avviare una vera procedura d’asilo nello Stato di accoglienza. Non si tratterà di una risposta puramente umanitaria che deriva dalla buona volontà e dal potere discrezionale dello Stato. Un obbligo positivo di protezione nascerà quindi dall’articolo 3. In altri termini, la politica di un paese in materia di visti è subordinata agli obblighi a lui imposti in virtù del diritto internazionale dei diritti dell’uomo. In tal senso sono state fatte importanti dichiarazioni dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa40, dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura41 e dall’alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati42.
Questa conclusione è corroborata anche dalla storia dell’Europa. Infatti, durante la Seconda Guerra mondiale questo continente ha conosciuto diversi importanti episodi collegati ai visti di protezione. Gli sforzi dispiegati dal diplomatico svedese Wallenberg e da altre persone a Budapest, oltre a quelli del diplomatico portoghese Sousa Mendes a Bordeaux e a Bayonne, sono degli esempi noti. Recentemente sono stati ricordati come un valido precedente per l’istituzione di una procedura formale di ingresso protetta dalle missioni diplomatiche degli Stati membri dell’Unione europea43.
Teniamo a mente quest’ultimo episodio: dopo l’invasione della Francia da parte della Germania nazista e la resa del Belgio, migliaia di persone fuggirono verso il sud della Francia, in particolare a Bordeaux e a Bayonne. Colpito dalla disperazione di queste persone, il console portoghese di Bordeaux, Aristides de Sousa Mendes, si trovò di fronte a un doloroso dilemma: doveva conformarsi alle chiare istruzioni di una circolare del governo portoghese del 1939 che ordinava di rifiutare qualsiasi visto agli apolidi, ai “titolari di passaporti Nansen”, ai “Russi”, agli “Ebrei espulsi dal paese della loro nazionalità o della loro residenza” e a tutti coloro “che non erano in condizione di ritornare liberamente nel loro paese di origine”, oppure doveva seguire quello che la sua coscienza e il diritto internazionale gli dettavano disobbedendo così agli ordini del governo e concedendo i visti? Decise di seguire la sua coscienza e il diritto internazionale, e concesse il visto a più di 30.000 persone perseguitate in ragione della loro nazionalità, delle loro credenze religiose o della loro appartenenza politica. Per questo atto di disobbedienza, il console pagò un caro prezzo: dopo essere stato escluso dalla carriera diplomatica, morì da solo e in miseria, e tutta la sua famiglia fu costretta a lasciare il Portogallo44.
Se questo episodio si fosse verificato ai giorni nostri, gli atti del diplomatico portoghese sarebbero stati pienamente conformi alla norma che deriva dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Infatti, la condotta del diplomatico costituirebbe l’unica reazione accettabile nei confronti di coloro che hanno bisogno di una protezione internazionale.
Il divieto di espulsioni collettive
L’obbligo di non respingimento ha due conseguenze procedurali: il dovere di informare lo straniero sul suo diritto di ottenere una protezione internazionale ed il dovere di offrire una procedura individuale, equa ed effettiva che consenta di determinare e valutare la qualità di rifugiato. L’adempimento dell’obbligo di non respingimento esige una valutazione del rischio personale di danno, che può essere effettuata soltanto se ogni straniero ha accesso ad una procedura equa ed effettiva con la quale la sua causa viene esaminata individualmente. I due aspetti sono talmente interconnessi che possono essere considerati come facce di una stessa medaglia. L’espulsione collettiva di stranieri è quindi inaccettabile.
Il divieto di espulsione collettiva di stranieri è previsto dall’articolo 4 del Protocollo n. 4 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dall’articolo 19 § 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dall’articolo 12 § 5 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, dall’articolo 22 § 9 della Convenzione americana relativa ai diritti dell’uomo, dall’articolo 26 § 2 della Carta araba dei diritti dell’uomo, dall’articolo 25 § 4 della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali della Comunità di Stati indipendenti, e dall’articolo 22 § 1 della Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie.
Affinché la procedura per determinare lo status di rifugiato sia individuale, equa ed effettiva, deve presentare necessariamente le seguenti caratteristiche: 1) un termine ragionevole per sottoporre la richiesta di asilo; 2) un colloquio individuale con il richiedente asilo prima che venga presa qualsiasi decisione sulla sua richiesta; 3) la possibilità di produrre elementi di prova a sostegno della richiesta e di contestare gli elementi di prova contrari; 4) una decisione scritta pienamente motivata proveniente da un organo indipendente di prima istanza, basata sulla situazione personale del richiedente asilo e non soltanto su una valutazione generale della situazione nel suo paese di origine, in quanto il richiedente asilo ha il diritto di contestare la presunzione di sicurezza di un paese rispetto alla sua situazione personale; 5) un termine ragionevole per appellare la decisione di prima istanza; 6) un controllo giurisdizionale integrale e rapido dei motivi di fatto e di diritto della decisione di prima istanza; e 7) una assistenza e una rappresentanza in giudizio gratuite e, se necessario una assistenza linguistica gratuita in prima e seconda istanza, nonché un accesso illimitato all’HCR o a qualsiasi altra organizzazione che lavori per conto dell’HCR.45.
Queste garanzie procedurali si applicano a tutti i richiedenti asilo qualsiasi sia la loro situazione giuridica e di fatto, come riconosce il diritto internazionale dei rifugiati46, il diritto universale dei diritti dell’uomo47 e il diritto regionale dei diritti dell’uomo48.
Questa conclusione non è inficiata dalla decisione della Corte secondo la quale l’articolo 6 della Convenzione non è applicabile alle procedure di espulsione o di asilo49, né dal fatto che alcune garanzie procedurali nei confronti degli stranieri espulsi possano trovarsi nell’articolo 1 del Protocollo no 7. L’articolo 4 del Protocollo no 4 e l’articolo 1 del Protocollo no 7 hanno la stessa natura: sono entrambi disposizioni che prevedono garanzie procedurali ma i loro rispettivi campi di applicazione sono sostanzialmente diversi. Le garanzie procedurali enunciate nell’articolo no 4 del Protocollo no 4 hanno un campo di applicazione molto più ampio di quello dell’articolo 1 del Protocollo n° 7: il primo articolo si applica a tutti gli stranieri qualunque sia la loro situazione giuridica o di fatto mentre il secondo riguarda soltanto gli stranieri che risiedono in situazione regolare nello Stato che ordina l’espulsione 50.
Una volta ammessa l’applicazione del principio di non respingimento ad ogni azione di uno Stato condotta al di là delle frontiere di quest’ultimo, si arriva logicamente alla conclusione secondo la quale la garanzia procedurale della valutazione individuale delle domande di asilo e il conseguente divieto di espulsione collettiva di stranieri non si limitano al territorio terrestre ed alle acque territoriali di uno Stato ma si applicano anche in alto mare51.
Infatti, né la lettera né lo spirito dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 vietano di farne un’applicazione extraterritoriale. Nella formulazione di questa disposizione non è previsto un limite territoriale. Inoltre, si riferisce molto ampiamente agli stranieri, e non ai residenti, e neanche ai migranti. Il suo scopo è garantire il diritto di presentare una richiesta di asilo che sarà oggetto di una valutazione individuale, qualsiasi sia la maniera con cui il richiedente asilo è arrivato nel paese interessato, sia per terra, per mare o per aria, legalmente o meno. Così, lo spirito di questa disposizione esige una interpretazione ugualmente ampia della nozione di espulsione collettiva, che comprenda tutte le operazioni collettive di estradizione, di rinvio, di trasferimento informale, di “restituzione”, di rigetto, di rifiuto, di ammissione e di ogni altra misura collettiva che avrebbero l’effetto di costringere un richiedente asilo a rimanere nel suo paese d’origine, qualsiasi sia il luogo in cui questa operazione ha luogo. Lo scopo della disposizione sarebbe aggirato molto facilmente se uno Stato potesse inviare una nave da guerra in alto mare o al limite delle sue acque territoriali e mettersi a rifiutare in maniera collettiva e globale ogni richiesta di rifugiato, o anche omettere qualsiasi valutazione dello status di rifugiato. L’interpretazione di questa disposizione deve dunque essere coerente con lo scopo di protezione degli stranieri da un’espulsione collettiva.
Concludendo, la extraterritorialità della garanzia procedurale dell’articolo 4 del Protocollo no 4 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo è pienamente conforme all’estensione extraterritoriale della stessa garanzia prevista dal diritto internazionale dei rifugiati e dal diritto universale dei diritti dell’uomo.
La responsabilità dello Stato per le violazioni dei diritti dell’uomo durante le operazioni di controllo dell’immigrazione e delle frontiere
Il controllo dell’immigrazione e delle frontiere costituisce una funzione essenziale dello Stato, e tutte le forme di questo controllo derivano dall’esercizio della giurisdizione dello Stato. Pertanto, tutte le forme di controllo dell’immigrazione e delle frontiere di uno Stato parte alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sono sottoposte alle norme in materia di diritti umani da queste ultime sancite e all’esame della Corte50, qualunque sia il personale incaricato di queste operazioni e il luogo in cui esse si svolgano.
Il controllo dell’immigrazione e delle frontiere è normalmente effettuato dai funzionari dello Stato dislocati lungo la frontiera di un paese, in particolare nei luoghi in cui transitano persone e beni, come i porti e gli aeroporti. Ma questo controllo può anche essere eseguito da altri professionisti in altri luoghi. In realtà la capacità formale di un agente dello Stato che esercita un controllo alle frontiere o il fatto che questa persona sia armata oppure no sono elementi privi di qualsiasi pertinenza. Tutti i rappresentanti, funzionari, delegati, impiegati pubblici, poliziotti, agenti delle forze dell’ordine, militari, agenti contrattuali o membri di una impresa privata che agisce in virtù di una autorità legale che assicurano la funzione di controllo delle frontiere per conto di una Parte contraente sono vincolati dalle norme stabilite dalla Convenzione53.
E’ inoltre irrilevante il fatto che il controllo dell’immigrazione o delle frontiere sia esercitato sul territorio o nelle acque territoriali di uno Stato, nell’ambito delle sue missioni diplomatiche, su una delle sue navi da guerra, su una imbarcazione registrata nello Stato o sotto il suo effettivo controllo, su una imbarcazione di un altro Stato o in un luogo situato sul territorio di un altro Stato o su un territorio assegnato ad un altro Stato, dal momento che il controllo è effettuato per conto della Parte contraente54. Uno Stato non può sottrarsi ai suoi obblighi convenzionali nei confronti dei rifugiati utilizzando lo stratagemma che consiste nel cambiare il luogo di determinazione del loro status. A fortiori, l’”escissione” di una parte del territorio di uno Stato dalla zona di immigrazione al fine di evitare l’applicazione delle garanzie giuridiche generali alle persone che arrivano in questa parte “escissa” dal territorio, rappresenta un diniego fragrante degli obblighi cui lo Stato è tenuto in virtù del diritto internazionale55.
Così, le norme della Convenzione che regolano tutta la gamma delle politiche concepibili dell’immigrazione e delle frontiere, compreso il divieto di entrare in acque territoriali, il diniego di visto, il rifiuto di autorizzare lo sbarco in vista delle operazioni di pre-sdoganamento o il fatto di mettere a disposizione fondi, attrezzature o personale per le operazioni di controllo dell’immigrazione effettuate da altri Stati o da organizzazioni internazionali per conto della Parte contraente. Tutte queste misure costituiscono forme di esercizio della funzione statale di controllo delle frontiere e una manifestazione della giurisdizione dello Stato, qualunque sia il luogo in cui sono adottate e qualunque sia la persona che le mette in atto56.
La giurisdizione dello Stato sul controllo dell’immigrazione e delle frontiere implica naturalmente la responsabilità dello Stato per ogni violazione dei diritti dell’uomo che si produca durante il compimento di questo controllo. Le regole applicabili alla responsabilità internazionale per le violazioni dei diritti dell’uomo sono quelle enunciate negli Articoli sulla responsabilità degli Stati per fatti internazionalmente illeciti, allegati alla Risoluzione 56/83 del 2001 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite57. La Parte contraente rimane vincolata dalle norme della Convenzione e la sua responsabilità non è per nulla attenuata dal fatto che per lo stesso atto sia coinvolta quella di uno Stato non contraente. Ad esempio, la presenza di un agente di uno Stato non contraente a bordo di una nave da guerra di uno Stato contraente o di una nave sotto il controllo effettivo dello Stato contraente non dispensa quest’ultimo dai suoi obblighi convenzionali (articolo 8 degli Articoli sulla responsabilità degli Stati). Peraltro, la presenza di un agente di uno Stato contraente a bordo di una nave da guerra di uno Stato non contraente o di una nave sotto il controllo effettivo di uno Stato non contraente permette di imputare allo Stato contraente che partecipa all’operazione qualsiasi violazione delle norme della Convenzione (articolo 16 degli Articoli sulla responsabilità degli Stati).
La violazione delle norme della Convenzione da parte dello Stato italiano
Secondo i principi qui sopra richiamati, l’operazione di controllo delle frontiere da parte dello Stato italiano che ha comportato il rinvio in alto mare, combinato alla mancanza di una procedura individuale, equa ed effettiva di filtro dei richiedenti asilo, costituisce una grave violazione del divieto di espulsione collettiva di stranieri e, di conseguenza del principio di non respingimento58.
Nel quadro della contestata azione di “rinvio”, i ricorrenti sono stati imbarcati a bordo di una nave militare appartenente alla marina italiana. Tradizionalmente le navi in alto mare sono considerate come un’estensione del territorio dello Stato di bandiera59. Si tratta di una asserzione incontestabile di diritto internazionale, sancita dall’articolo 92 § 1 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (“CNUDM”). Questa asserzione è ancor più vera nel caso di una nave da guerra, che è considerata, per citare Malcom Shaw, come “il braccio armato della sovranità dello stato di bandiera”60. L’articolo 4 del codice della navigazione italiano sancisce questo stesso principio quando enuncia che “Le navi italiane in alto mare e gli aeromobili italiani in luogo o spazio non soggetto alla sovranità di alcuno Stato sono considerati come territorio italiano”. Insomma, quando i ricorrenti sono saliti a bordo delle navi italiane in alto mare, sono penetrati in “territorio” italiano, nel senso figurato di questo termine, beneficiando così ipso facto di tutti gli obblighi cui è tenuta la Parte contraente alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e alla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati.
Il governo convenuto sostiene che le azioni di rinvio in alto mare erano giustificate dal diritto del mare. Si potrebbero considerare quattro motivi di giustificazione: il primo è l’articolo 100 § 1, comma d), della CNUDM combinato con l’articolo 91 di quest’ultima, che autorizza l’abbordaggio di navi che non battono alcuna bandiera, generalmente come quelle che trasportano i migranti illegali attraverso il Mediterraneo; il secondo è l’articolo 100 § 1, comma b) della CNUDM, che autorizza le imbarcazioni ad abbordare le navi in alto mare se vi sono ragionevoli motivi per sospettare che la nave in questione sia impegnata nel traffico di schiavi, potendo estendere questo motivo alle vittime della tratta degli esseri umani, tenuto conto dell’analogia tra queste due forme di traffico61; il terzo è l’articolo 8 §§ 2 e 7 del Protocollo contro il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, che autorizza gli Stati a intercettare e a prendere misure appropriate contro le navi che possono essere ragionevolmente sospettate di essere dedite al traffico illecito di migranti; e il quarto è l’obbligo previsto dall’articolo 98 della CNUDM, di prestare assistenza alle persone in pericolo o in emergenza in alto mare. In tutte queste circostanze, gli Stati restano allo stesso tempo sottoposti al divieto di respingimento. Nessuna di queste disposizioni può ragionevolmente essere invocata per giustificare una eccezione all’obbligo di non respingimento e, di conseguenza, al divieto di espulsione collettiva. Ciò significherebbe dare una interpretazione tendenziosa di queste norme che si prefiggono di garantire una protezione alle persone particolarmente vulnerabili (le vittime di traffici, i migranti illegali, le persone in pericolo o in emergenza in alto mare), come pure servirsene per giustificare l’esposizione di queste persone a un ulteriore rischio di maltrattamenti riconducendole nei paesi dai quali sono fuggite. Come il rappresentante francese, sig. Juvigny, ha detto al comitato speciale durante le discussioni sul progetto di Convenzione sui rifugiati, “(…) non vi è peggior catastrofe, per un individuo che è giunto dopo varie vicissitudini a lasciare un paese in cui era sottoposto a persecuzioni, che vedersi rinviare in questo paese, senza parlare delle rappresaglie che lo aspettano”.62
Se vi è una causa nella quale la Corte dovrebbe fissare misure concrete di esecuzione è proprio questa. La Corte ritiene che il governo italiano debba adoperarsi per ottenere dal governo libico l’assicurazione che i ricorrenti non siano sottoposti a un trattamento incompatibile con la Convenzione, compreso un respingimento indiretto. Non è abbastanza. Il governo italiano ha anche un obbligo positivo di fornire ai ricorrenti un accesso pratico ed effettivo ad una procedura di asilo in Italia.
Le parole del giudice Blackmun sono talmente ispirate che non dovrebbero essere dimenticate. I rifugiati che tentano di scappare dall’Africa non richiedono un diritto di ammissione in Europa. Essi domandano soltanto all’Europa, culla dell’idealismo in materia di diritti dell’uomo e luogo di nascita dello Stato di diritto, di cessare di chiudere le sue porte a persone disperate che fuggono dall’arbitrio e dalla brutalità. È una preghiera modesta, peraltro sostenuta dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. “Non restiamo sordi a questa preghiera”.
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