Quando sono gli stessi rifugiati accolti a valutare i progetti di Accoglienza e Integrazione di RETESAI, vien fuori un quadro più realistico.

Come se la passa l’accoglienza italiana?

Negli ultimi mesi, con l’arrivo dei profughi ucraini, nuovi ospiti “vip” (se paragonati ai rifugiati africani e asiatici), si è tornati a parlare di accoglienza. Gli italiani, impietositi dalle immagini di persone in fuga dalla guerra, sono finalmente riusciti a provare quell’empatia che prima mancava. “Gli ucraini sono uguali a noi, hanno il diritto di vivere”, devono aver pensato. Molti hanno offerto aiuto, vestiti, stanze, cibo; per poi scoprire che in Italia esiste già un sistema di accoglienza. Qualcuno ha addirittura scoperto l’articolo 10 della Costituzione italiana: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.

Alcuni cittadini italiani hanno accolto profughi ucraini in casa loro nella convinzione di averli salvati dalla guerra. E dal sistema di accoglienza italiano.

Ciò fa pensare.

La sfiducia probabilmente nasce dalla storia psichedelica di un sistema che nel giro di vent’anni ha cambiato continuamente nome e forma inseguendo lo slogan ideologico del momento, quello più in voga al bar e in Parlamento. E anche – soprattutto – nasce dalle brutte, bruttissime storie che dai progetti di accogllienza arrivano sui giornali: incendi, suicidi, bancarotte fraudolente…

Il sistema di accoglienza italiana è davvero una schifezza?

Chi può illuminarci sulla realtà? A chi possiamo chiedere se lil sistema italiano funziona bene o male?

La risposta è abbastanza banale, eppure in qualche modo rivoluzionaria: agli ospiti, ai rifugiati.

In questo mondo tutto viene recensito, tutto ha da uno a cinque stelle. Se vogliamo andare a cena al ristorante non andiamo a leggere le recensioni del cuoco o del proprietario, leggiamo quelle di chi ci ha mangiato prima di noi, dei clienti.

Quindi, su questo blog farò il lavoro di raccogliere i giudizi dei rifugiati sui loro stessi centri di accoglienza. Tutto qua.

Nelle prossime settimane e mesi su questo blog troverete storie, testimonianze e fotografie che arrivano dagli ospiti dei progetti RETE SAI di tutta Italia.

Vi anticipo già una cosa (che probabilmenmte non immaginate): molte, moltissime di queste esperienze SONO BUONE. Alcune anche ottime. Ci sono progetti di accoglienza che – nonostante gli scarsi finanziamenti statali, nonostante il clima di razzismo diffuso nel nostro paese – resistono, lottano, funzionano.

Purtroppo in questo paese siamo abituati a percepire come “normale” il progetto pubblico che NON funziona, quello in cui c’è chi “si frega i soldi e poi scappa”. E’ un atteggiamento nocivo! Se la normalità è la schifezza, si crea quella distorsione malefica per cui i ladri diventano dei “furbetti” e i loro crimini vengono depenalizzati a malcostume. Se omettiamo di raccontare le (tante) cose che funzionano per concentrarci solo sulle (poche) che non funzionano, distorciamo la realtà e con essa la normalità.

Un progetto di accoglienza che funziona bene deve essere la normalità!

Su questo blog troverete tanti racconti di bei progetti virtuosi (dove virtuoso = normale, come deve essere secondo la legge e secondo l’etica) che sto andando via via a visitare.

Per combattere la malaccoglienza, bisogna raccontare la benaccoglienza.

Ogni tanto troverete anche qualche racconto su progetti non buoni, questo sì. A dirla tutta, fino ad ora, ho trovato solo un progetto SAI che merita una sola stella (forse anche zero…). Racconterò anche questa storia. Devo però riconoscere che una mia denuncia all’efficientissimo servizio centrale del SAI è stata letta e lavorata nel giro di poche ore (se non minuti…) e tutti i gravi disservizi da me segnalati sono stati risolti dalla sede centrale nel giro di… 12 ore. Una prontezza e competenza che ha stupito anche me, che sono umana e come tutti a volte risento un pochino della sfiducia diffusa verso gli uffici pubblici. La domanda che ho fatto alla sede centrale del SAI nella mia lettera era proprio : “Una situazione del genere è normale?”. “No” è stata la risposta. E da lì il pronto intervento risolutore.

Insomma: il sistema italiano PUO’ funzionare e spesso funziona.

Quando NON funziona è perché i disservizi non vengono denunciati da chi pensa che – dopotutto – sia normale malagestione. Ma su questo aspetto, tornerò in un articolo specifico.

Che cos’è il Sistema di Accoglienza e Integrazione di RETE SAI

Il Sistema di Accoglienza e Integrazione di RETE SAI è il sistema di seconda accoglienza. Fa molto meno schifo del sistema di prima accoglienza (che avviene spesso in hotspot orribili e blindati come i CARA) e del sistema precedente (il salviniano SIPROIMI). E’ finanziato con (troppo pochi) soldi pubblici e comprende un numero altissimo di progetti realizzati in tutta Italia da enti locali. Alcuni molto buoni, alcuni… meno.

Alla RETE SAI possono accedere:

  • richiedenti protezione internazionale;
  • titolari dei permessi di soggiorno protezione speciale ad eccezione dei casi per i quali siano state applicate le cause di diniego ed esclusione della protezione internazionale, di cui agli artt. 10, comma 2, 12, lett. b) e c), e 16, decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, per cure mediche, di cui all’art. 19, comma 2, lettera d-bis);
  • titolari di protezione sociale, di cui all’art. 18 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286;
  • vittime di violenza domestica, di cui all’art. 18-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286;
  • vittime di calamità, di cui all’art. 20-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286;
  • vittime di sfruttamento lavorativo, di cui all’art. 22, comma 1 2-quater del decreto legislativo 25 luglio 19 98, n. 286;
  • Migranti cui è riconosciuto particolare valore civile, di cui all’art. 42-bis del decreto legislativo 25 luglio 19 98, n. 286;
  • Titolari di casi speciali – regime transitorio (di cui all’art. 1, comma 9, decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 come convertito dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132);
  • gli stranieri affidati ai servizi sociali, al compimento della maggiore età, ai sensi dell’art. 13, comma 2, della legge 7 aprile 2017, n. 47 (prosieguo amministrativo).

Gli enti locali (in genere i Comuni) che gestiscono i progetti della rete SAI sono distribuiti su tutto il territorio nazionale e garantiscono interventi di accoglienza integrata. Affidano i progetti ad associazioni o cooperative sociali.

I finanziamenti purtroppo sono pochi. I famosi 35 euro erano una famosa balla. L’importo giornaliero previsto per singola persona ospitata va da un minimo di 5 euro ad un massimo di 10. Tale importo comprende il vitto, l’igiene personale, l’assistenza ai neonati e il materiale ludico.

Più informazioni le trovate in questo articolo.

BENACCOGLIENZA. Ecco come nasce e come si sviluppa il mio nuovo progetto

A fine febbraio 2022 un volo di evacuazione dalla Libia atterra a Roma Fiumicino. Conosco alcuni tra i 99 passeggeri, sono tre anni che racconto le loro storie. Festeggio, finalmente sono usciti da quell’inferno che si chiama Libia. Non li lascio, perché sono miei amici e perché so che la loro disavventura non è finita: sono fuori dalla Libia, ma la Libia è ancora dentro di loro, sotto forma di traumi. Così mi immergo con loro nella nuova vita italiana. Entro anche io nel sistema di accoglienza. Leggi il reportage.

Il lavoro e le idee sono tanti.

Telefono alle persone che accolgono i miei amici rifugiati, gli operatori dei centri SAI. E’ un confronto sempre positivo: assistenti sociali e psicologi hanno mille domande da farmi su cosa avviene in Libia, soprattutto nei lager. Ciò che si legge sui giornali è indistinto e non sufficiente a capire cosa realmente hanno vissuto i rifugiati.

Elaboro un seminario da fare nei progetti SAI. Argomento: i traumi della rotta libica. Racconto con l’ausilio di foto e video girati dai miei amici nei lager e in mare. Ricevo inviti in ogni parte di Italia.

E poi… Scrivo lettere alle commissioni territoriali da allegare alle domande di asilo dei rifugiati che conosco. In un caso aiuto i rifugiati a far valere i propri diritti presso la cooperativa che gestisce uno dei centri. Indago per ritrovare parenti scomparsi in Libia. Chiamo commissioni territoriali per sollecitare una risposta alle domande di asilo (funziona!).

Il sistema SAI va raccontato e aiutato. Ecco perché.

L’Italia, con gli accordi Italia-Libia, ha finanziato un gigantesco sistema di deportazione e cessione di manodopera schiava ad un paese straniero. Il minimo è che paghi i danni alle vittime, che paghi le cure fisiche e psicologiche alle persone che ha deportato.

Una mano ferisce, l’altra cura le ferite. Il tutto, a spese nostre. Certo, sarebbe più bello, più comodo e più economico smettere di consegnare persone al sistema dei lager libici. Ma ormai l’abbiamo fatto.

Raccontare lo strenuo lavoro degli operatori del SAI per curare i traumi fisici e psicologici della rotta libica servirà, anche, a sensibilizzare gli italiani su ciò che il loro governo sta facendo a degli asseri umani.

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