Ricordate i rifugiati respinti dall’Europa e catturati in mare dalla cosiddetta guardia costiera libica il 17 febbraio scorso?

Vi riassumo la vicenda:

  • Il 17 febbraio 2020 decolla un aereo della (ormai ex) missione Sophia, un aereo lussemburghese che svolge un lavoro quotidiano di caccia all’uomo (non so con che altrae parole definire la sua attività).
  • In mare, in acque internazionali, a 50 miglia a nord di Garabulli, l’aereo spia scova due gommoni che procedono verso nord senza problemi.
  • La missione Sophia passa le coordinate dei gommoni alla cosiddetta guardia costiera libica. (Non lo dico io, lo ammette per iscritto la stessa Difesa ad alcuni bravi giornalisti che chiedono conto della cosa).

    NOTA: Il sistema che usano è semplice: quando gli aerei scovano “una barca in distress”, ovvero “una barca” (perché tutte le barche vengono da loro ritenute di default in distress), trasmettono le coordinate a tutti: MRCC Italia, MRCC Malta e MRCC Libya, che è la cosiddetta guardia costiera libica. I libici sono sempre i primi e gli unici ad arrivare sul posto.
  • Qualche ora dopo una motovedetta libica arriva alle coordinate trasmesse dall’aereo spia della missione Sophia e cattura tutte le persone sui gommoni.  Circa 240.
  • Le deportano in Libia.

Un account Twitter che si finge interessato alla sorte dei rifugiati, ma che invece è strettamente connesso alla cosiddetta guardia costiera libica, posta in anteprima le foto della cattura. Eccole:

  • Arrivate in Libia, i rifugiati catturati non vengono portati in uno dei tanti lager che conosciamo, ma chiusi in un luogo segreto, un capannone alla periferia di Tripoli. Di questo carcere segreto, grazie ad una fonte in Libia (che ringrazio!) sono in grado di darvi le coordinate satellitari. L’ho messo su Google Maps:


Ho anche alcune foto dell’interno. Vi faccio vedere il soffitto:

E’ lo stesso carcere segreto citato dal bravissimo Nello Scavo in questo articolo su L’Avvenire e dall’altrettanto bravissimo Leonardo Filippi in questo articolo di Left. Entrambi hanno raccolto l’appello di noi del JLProject e si sono messi ad indagare e a scrivere sulla vicenda.

  • La storia sembra finire qui. Oltre 100 persone, tra cui donne e bambini, scompaiono nel nulla. I parenti e gli amici non ne conoscono la sorte e sono disperati.

Nessuno di loro si è fatto più vivo. E’ strano e preoccupante. Nel sistema dei lager libici si riesce quasi sempre a far arrivare un messaggio ai parenti a casa.

UNHCR non ha, che mi risulti, fatto alcuna verifica sul luogo e o denuncia sulla scomparsa di tutte quelle persone.

Io sono molto preoccupata e con i miei scarsi mezzi trascorro un mese a fare indagini.

Qualcosa scopro…

Ma facciamo un salto in avanti. Non ci dimentichiamo dei rifugiati respinti e arriviamo a ieri, 1 aprile 2020.

Su Twitter appare un appello disperato.

Lo vedo a rispondo. Faccio una semplice domanda: Ibrahim si era per caso imbarcato su un gommone il 17 febbraio 2020?

Sì.

Faccio altre domande e mi vengono forniti particolari che conosco bene, perché si tratta proprio della storia che sto seguendo. Questo ragazzo probabilmente è uno dei rifugiati respinti il 17 febbraio.

 Forse so dove potrebbe essere Ibrahim perché, nel frattempo, mi è arrivata una pista. Da più fonti. Da molte fonti, che non si conoscono tra di loro.

I rifugiati respinti e catturati il 17 febbraio sarebbero stati processati e condannati a 6 mesi di cella underground nel lager di Triq al Sikka.

Un processo? Un processo come? Sicuramente senza avvocati, perché so per certo che alcuni dei rifugiati catturati hanno in passato dato la procura legale ad avvocati internazionali che NON sono stati informati di questo processo.

Si può fare un processo senza avvocati? Nel sistema dei lager libici di Al Serraj, che l’Europa finanzia e dove ha deportato queste persone, apparentemente sì.

Sapete cos’è la cella underground di Triq al Sikka? E’ la cella delle torture.

Ho parlato molto, nell’ultimo anno, del lager di Triq al Sikka. Attualmente è impossibile mettersi in contatto con gli uomini lì reclusi, ai quali le guardie di Al Serraj hanno rubato i telefoni. Sono possibili solo sporadici contatti con l’hangar delle donne, nella quale non arrivano notizie dei compagni rimasti dall’altra parte. Ci sono ragazze di nazionalità con priorità di evacuazione (secondo UNHCR) che sono lì dal 2018. Ah, ultima informazione: il lager di Triq al Sikka è finanziato da progetti italiani.

Mi chiedo: se la cosiddetta guardia costiera libica prende gente dal mare, la rinchiude in un carcere segreto, la processa sommariamente (processo senza avvocati = processo sommario) e la condanna a 6 mesi di torture, è il caso di continuare a far volare con soldi pubblici europei aerei spia che operano in correità con i libici?

Ho scritto “se”, perché non mi è possibile confermare questa notizia.

Tarik Argaz, responsabile comunicazione e stampa di UNHCR in Libia, in passato mi ha ripresa ed insultata su Twitter scrivendo che pubblico inesattezze perché in Libia non ci ho mai messo piede.

Qui trovate il suo tweet.

E’ vero che non ho mai messo piede in Libia. Mi piacerebbe molto andarci e conoscere i rifugiati con cui sono in contatto da più di un anno. Ma, per ovvie ragioni, non posso farlo.

Io, d’altronde, sono solo un’attivista. NON SONO PAGATA per occuparmi dei rifugiati, come lo è invece il signor Argaz. Io lo faccio gratis, con passione, togliendo tempo al lavoro e alla famiglia.

E sì, lo riconosco, è molto strano che sia io, “che non ho mai messo piede in Libia” e che non ricevo incarichi o stipendi, a denunciare, ancora una volta, una terribile violazione dei diritti umani laggiù. E non UNHCR.

Quindi chiedo al signor Tariq Argaz, responsabile comunicazione e stampa di UNHCR in Libia incaricato e pagato (con soldi pubblici), se può gentilmente accertarsi della veridicità di questa storia e se può operare affinché i rifugiati respinti il 17 febbraio che sono scomparsi possano contattare i loro avvocati e familiari.

E’ più giusto che lo faccia il signor Argaz, considerato che è il suo lavoro.

Gli scrivo cordialmente e attendo una sua risposta.

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