Un giorno il ragazzo con cui uscivo rubò le chiavi del gommone nuovo al padre e mi propose di fare un giro. Ero una ragazzina di 17 anni e lui era poco più grande di me, appena maggiorenne.

“Andiamo” accettai, non proprio convinta perché era pomeriggio inoltrato e soprattutto perché non amavo quel tipo di imbarcazioni.

Ma vabbè, andiamo.

Il mio ragazzo era un tipo supersimpatico ma aveva quel difetto che spesso hanno i giovani uomini che vogliono impressionare le giovani donne: l’ansia di voler impressionare le giovani donne.

Girò la chiave nel quadro di controllo e gli occhi gli avvamparono immediatamente. Partimmo da una spiaggia del litorale romano e lui spinse deciso fino in fondo il gas di quel motore da un milione di cavalli raggiungendo immediatamente la velocità di un milione di nodi e puntando dritto sulla Sardegna come se fosse alla guida di un Concorde.

Il gommone in un fracasso infernale volava letteralmente sulle onde e puntava dritto sul sole che diveniva sempre più rosso assieme agli occhi del mio ragazzo.

Che urlava, ossesso:

“Guarda come planaaaaaaaaaaaaaaaa”.

Ogni tanto quel missile di plastica precipitava giù nell’abisso tra due onde con uno schianto fisico e sonoro potente ma non potente abbastanza per coprire le urla di esaltazione del pilota.

Io, inguardata, me ne stavo in un angolino ben aggrappata per non venir sbalzata fuoribordo. Tacevo, per non rischiare di mordermi la lingua per una botta dello scafo. Avevo le orecchie piene di rombi e schianti e delle sue risate. Avevo l’olfatto a pezzi per la puzza di gasolio. Mi annoiavo.

Nella corsa, folle e monotona, chiassosa e scomoda, verso un ovest che non si vedeva, le uniche cose da guardare erano la costa che diventava sempre più piccola e il sole che diventava sempre più rosso.

E poi.

Crack.

Il motore collassò e il missile di plastica si accasciò sulle onde agonizzando come una lunga balena grigia. Spiaggiata in mezzo al mare.

Il ragazzo provò a girare la chiave. Il motore rantolò qualcosa, ma non si accese.

Il silenzio si impadronì di ogni cosa e un venticello fresco spazzo via l’odore di nafta. Davanti a noi il tramonto più bello del mondo.

Ora si che iniziavo ad apprezzare la gita!

Lui no, subito cadde in preda alla fase “Mio padre mi ammazza”. Provava e riprovava a riavviare il gommone. Poi, sconfitto, cadde in uno stato catatonico in cui rimirava il motore spento e continuava a mormorare solo quattro parole: “Mio-padre-mi-ammazza”.

In mezzo al mare. Alla deriva.

Non avevamo un cellulare. Nessun’altra barca in vista. La costa era una linea flebile all’orizzonte.

Aspettai che il sole si fosse inabissato. Poi chiesi calma “Avrai dei remi, no?”.

Tirò fuori un mezzo marinaio, uno solo, di neanche un metro. Più corto degli enormi tubolari del gommone. Inservibile. Riprecipitò nel suo stato catatonico e riprese la sua nenia: “Mio padre mi ammazza, mio padre mi ammazza”.

Perlustrai con gli occhi il gommone e mi accorsi che sul fondo c’era un ombrellone chiuso, uno di quelli grandi e quadrati. Ottimo. Lo trascinai a prua.

“Cosa fai?” mi chiese il ragazzo riemergendo dai suoi incubi.

“Un fiocco” risposi io.

“Che???”

Gli spiegai che il fiocco è la vela che sta sulla prua e che è molto facile da manovrare. Che il vento a quell’ora stava soffiando dal mare verso la terra e che anche la corrente andava nella stessa direzione. Infatti il gommone si era girato verso la terraferma e avevamo un bel venticello in poppa.

(L’anno prima avevo fatto un corso di vela e mi era piaciuto un sacco).

“Possiamo tornare a vela” dichiarai.

Lui, amante dei motori da un milione di cavalli e della velocità smodata, non era affatto convinto. Ma…
1) ero la sua ragazza;
2) aveva fatto una figuraccia
3) contraddire la tua ragazza dopo che hai fatto una figuraccia è impossibile.
E quindi mi aiutò a aprire l’ombrellone, posizionarlo sulla prua e legarlo esponendo la tela al vento.

Il gommone iniziò a muoversi e noi ci sedemmo tranquilli al timone godendoci quella lenta silenziosa navigazione, il vagire dei gabbiani sopra le nostre teste e la fresca brezza che ci scherzava sul collo e ci sorpassava finendo a gonfiare la nostra vela di fortuna.

Dato il vento in poppa non c’era bisogno di virare per tornare sulla terraferma, ma divertendoci come matti a spostare l’ombrellone e usando il timone riuscimmo ad attraccare esattamente nel punto dove dovevamo lasciare il gommone. Non era ancora buio e dalla spiaggia qualcuno si stupì di veder arrivare quello strano missile di plastica… a vela e di vederne scendere due ragazzi così felici.

Il motore poi lo ripararono. Suo padre non lo ammazzò.

Morale della storia

La vela può salvarti la vita. O, almeno, può rendere bello un pessimo appuntamento.

Consigli

Dato che alla fine delle mie storie lascio sempre dei consigli vi lascio i contatti di una bellissima barca dove potete fare un corso di vela (basta un weekend per imparare a salvarsi da un pessimo appuntamento…) o una vacanza o anche tutti e due assieme.

Alisea – Veleggiando.eu

Lo skipper di Alisea si chiama Roberto ed è un velista espertissimo e un ottimo insegnante.

Quest’estate Alisea naviga sul Tirreno partendo dal porto di Nettuno (vicino Roma) e dona parte dell’incasso a Emergency, altro motivo in più per sceglierla.

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Questo articolo ha un commento

  1. Maria Marsala

    Un racconto bellissimo la tua esperienza…leggerti mi fa emozionare tanto da immedesimarmi nel personaggio.
    Auguri Sarì ❤

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