Lager libico di Tajoura. Trovato un testimone chiave degli omicidi compiuti dalle guardie durante il bombardamento.

Chi legge da anni questo blog lo sa: il bombardamento nel lager di Tajoura, il 1 luglio 2019, è stato un evento che mi ha toccata moltissimo, sia perché l’ho vissuto in diretta, con tanti rifugiati che mi chiedevano aiuto via telefono proprio mentre avveniva, sia per come lo hanno raccontato MALE quasi tutti i giornali del mondo.

Non mi addentrerò sulle responsabilità e correità di politici e giornalisti italiani nell’occultamento di prove in crimini contro l’umanità e in crimini di guerra perpetrati in Libia in questi anni. Non citerò neppure questi articoli e dichiarazioni.

Vi racconterò solo una cosa: quando scrissi che durante il bombardamento di Tajoura le guardie del lager avevano sparato addosso ai migranti che cercavano di mettersi in salvo e ne avevano uccisi tanti, ci fu chi disse che io non potevo provarlo e che non sapevo neanche i nomi delle presunte vittime.

Era vero, come era vero che non potevano provarlo i (molto pochi) giornalisti che diedero la notizia (cito e ringrazio Rachele Gonnella su Il Manifesto). Ma era anche vero che tanti testimoni che non si conoscevano tra di loro mi raccontavano la stessa storia. Di più: davanti alle fotografie delle guardie della milizia Dhaman, che gestiva il lager libico di Tajoura, tutti mi avevano indicato il libico F.A. come uno degli assassini.

Così feci un dossier e lo inviai alla Corte Penale Internazionale. Ci misi tutte le informazioni che avevo, consapevole che mancavano due cose:

  1. il nome completo di almeno uno dei migranti assassinati. Come si può denunciare un omicidio di cui non si conosce la vittima?
  2. un testimone fuori dalla Libia. Come si può far testimoniare qualcuno che è ancora prigioniero di una milizia assassina?

Oggi ho trovato entrambe le cose: vittima e testimone.

Il testimone è una vittima sopravvissuta, a cui le guardie del lager libico hanno sparato addosso

Lo chiameremo Peter per proteggere la sua identità, anche se adesso è al sicuro in Europa. E’ sopravvissuto ad una serie di eventi orribili e traumatici, qualcosa che non potete neanche immaginare, un’agonia di anni. E’ una persona che ha scelto di non girarsi dall’altra parte e di denunciare tutto quello che ha subito, perché altri dopo di lui non debbano passare ciò che ha passato lui. E’ un uomo colto e intelligente, di comprovata affidabilità.

Tutte le altre testimonianze che ho raccolto negli anni arrivavano da rifugiati sudanesi e sud sudanesi. Peter è di un’altra nazionalità, subsahariano, e non conosce gli altri miei testimoni.

Il 1 luglio del 2019 era nel lager libico di Tajoura. Ho la sua testimonianza scritta. Ve la traduco:

Intorno alle 23:00 avevamo finito il pasto quotidiano già da un po’ di tempo e la maggior parte dei detenuti si era divisa in gruppi, per comunità. Alcuni giocavano a carte e ad altri si raccontavano barzellette, tutto questo per tenerci un po’ occupati dato che dentro ci era permesso solo dormire, senza attività. Abbiamo dovuto cercare modi per distrarci e per non lasciarci trasportare dalle pene e dal dolore di essere rinchiusi e bastonati quotidianamente.

Quel giorno, curiosamente, le guardie furono così attente con noi, ci portarono carne e pane e a quelli che fumavano diedero le sigarette. Fu una serata unica, al punto che pensavamo che ci avrebbero liberato.

Peter riferisce un altro particolare importante: Medici senza frontiere sarebbe dovuti venire, ma i libici disdissero la visita.

“Qualcosa non andava” ricorda Peter “ce ne siamo accorti poiché dall’interno del carcere abbiamo sentito degli spari in lontananza“.

Esplose la prima bomba. Non fece vittime ma una parte del tetto crollò alzando polvere .

Di questo momento possiedo anche un video. E’ girato probabilmente in un’hangar diversa da quella dove si trovava Peter. Si vede comunque la gente che urla e implora le guardie libiche di aprire i cancelli. Anche Peter scrive lo stesso:

Il panico è stato totale, alcuni gridavano aiuto e altri cercavano di forzare il cancello perché sapevamo che per noi era la fine. La sparatoria fuori si intensificò ed eravamo ancora all’interno.

Dopo qualche tempo, fu il silenzio più totale, niente più rumore di armi, niente più rumore fuori e ci calmammo anche dentro. E lì la guardia della nostra cella aprì la finestrella che c’era sul cancello, quella che serviva per far passare il cibo durante l’ora del pasto. Ci ha detto che stavamo morendo tutti, ha chiuso e se n’è andato. Da quel momento capimmo che per noi era la fine e capimmo perché durante la giornata avevamo beneficiato di tutti quei doni dalle guardie.

Esplose la seconda bomba.

Vidi un’enorme scintilla color fiamma accompagnata da un suono di esplosione così potente che persi immediatamente l’udito. Non sapevo dove fossi finché non ho alzato lo sguardo e mi sono accorto che due bombe erano appena esplose. Era così buio e c’era fumo ovunque. In lontananza ho visto una piccola luce e mi sono diretto verso di essa. Non potevo vedere nulla a causa del fumo e non potevo sentire nulla, ma sapevo che stavo calpestando corpi umani. Questa luce che seguivo mi ha portato fuori dal carcere e lì ho visto gente correre in tutte le direzioni e ho visto le guardie carcerarie spararci addosso impedendoci di fuggire.

In quel momento Peter aveva un solo pensiero: raggiungere sua moglie detenuta nell’hangar delle donne. Correva. Gridava il suo nome. Era disperato. Un altro rifugiato, che si chiama Roger, lo vide e lo aiutò. Alla fine la trovarono ma le guardie libiche continuavano a sparare addosso ai rifugiati, come in un tiro a segno dell’orrore.

Roger venne colpito.

La vittima che ho trovato si chiama Roger

Roger. So molte cose di lui (compreso il cognome). Studente dell’università di Bandjoun, in Camerun. Nella primavera 2019 tentò il mare, venne catturato e finì nel terribile lager libico di Tajoura, finanziato dall’Italia. Ricordiamo che il lager nel 2019 era un deposito di armi da guerra sopra il quale il governo libico aveva messo i migranti allo scopo di utilizzarli come scudi umani.

Il profilo Facebook di Roger è ancora online, con le sue foto, le cose che scriveva, i contatti dei suoi familiari.

Roger non morì a causa della bomba, venne ucciso. Spirò sulla terra del lager libico di Tajoura, appena fuori l’hangar dove era stato rinchiuso, torturato, affamato dal governo libico con l’accusa di essere un migrante irregolare e di aver cercato di scappare dalla Libia via mare.

Conosco il nome di uno degli assassini

Lo inviai già alla Corte Penale dell’Aja nel 2019, con la sua foto e il suo titolo.

Ho mandato ieri 10 foto a Peter: è la galleria dell’orrore delle guardie del lager libico di Tajoura. Ci sono anche i miliziani che nel 2019 avevano torturato su una sedia elettrica e quasi ucciso una mia fonte. Senza indugi, in mezzo a tante facce, Peter ha riconosciuto l’uomo che mi era già stato indicato da molti altri.

Eccolo qui

Volete sapere chi è?

Vi mostro un’altra foto, dove è in divisa. La foto è un particolare di immagini che vennero scattate a Tajoura la mattina del 2 luglio. Gli oscuro il volto, ma alla Corte Penale mando la sua foto in chiaro.

L’uomo che uccise i rifugiati a colpi di arma da fuoco la notte tra il 1 e il 2 luglio 2019 è F.A., il capo delle guardie del lager libico di Tajoura. Faceva parte dello staff di gestione di un campo, quello di Tajoura, allora finanziato dai progetti del ministero dell’interno italiano.

Quante persone vennero uccise da F.A. e dalle altre guardie del lager libico di Tajoura?

I rifugiati hanno sempre parlato di 100 morti in totale in quella terribile notte.

I libici e il governo italiano scrissero che le bombe ne avevano uccisi 50.

Fate un po’ i conti.

In più c’erano tutti i rifugiati uccisi nei mesi precedenti.

Che si fa adesso? Si denuncia ancora!

Peter ora può andare a testimoniare, VUOLE andare a testimoniare per far si che venga emesso un mandato di arresto internazionale per questo e per altri assassini che hanno compiuto crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Io e Peter, quando ci siamo conosciuti, abbiamo subito scoperto che avevamo qualcosa in comune: una storia che mai avremmo dimenticato. Questa. E’ così che è venuto fuori tutto.

Non dobbiamo dimenticare le vittime di Tajoura e il mio appelllo per la ricerca di testimoni e parenti di altri rifugiati uccisi è sempre valido.

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