L’argano parte con un rantolo e poi via, la catena sferraglia libera verso l’acqua trascinandosi appresso la pesante ancora che se ne stava dormiente appennellata sulla prua.
Inizia il concerto dell’ormeggio: le sartie squittiscono nei passacavi, cime abbisciate al sole vengono risvegliate e srotolate, i passi dei prodieri rimbombano sul ferro del ponte di prua e fanno da contrappunto a quelli dei marinai più addietro che corrono su e giù perlustrando la murata di tribordo in avvicinamento alla banchina.
Con un ultimo ruggito la nave si affianca al molo e le sue viscere tacciono di colpo nel pomeriggio afoso e straordinariamente privo di vento di questo porto siciliano.
E’ bello un po’ di silenzio dopo tanto fracasso.
Adesso si ode solo il vagito di un manipolo di gabbiani che nuotando frugano curiosi nella risacca sotto il molo. La nave, un rimorchiatore artico di grossa stazza, è ora una propaggine della solitaria e muta banchina.
Silenziose iniziano ad alzarsi le prime teste. Teste scure che osservano fuori con sguardi del tutto privi di interesse. Se ne sollevano una decina, poi venti, poi cento. Uomini neri e nudi e senza occhi perché le cavità che hanno sulla testa sono solo pozzi di buio.
In mezzo a loro appaiono muti fantasmi bianchi, uno ogni tanto, punti color latte nella densa massa color pece.
Si anima anche il molo e da terra giunge un plotone di altri fantasmi che procedono in formazione nei loro scafandri immacolati. Si avvicinano alla nave. Solo allora si sentono voci, attutite e deformate dalle mascherine che portano sul viso.
Nello stesso momento, ma con un ritardo come di immagini che arrivano dalla Luna, dalla nave sale al cielo il brusio omogeneo degli uomini neri che si alzano in piedi. Il ponte brulica: un groviglio di corpi nudi vagano senza meta avanti e indietro avanti e indietro ondeggiando come se avessero perso definitivamente il senso dell’orientamento.
“I bambini e le donne” è la prima frase comprensibile. Urlata da uno degli astronauti sul molo e ripetuta da un marinaio in piedi sul barcarizzo e poi da altri a bordo, rimbalzata in un’eco multipla che la trasforma traducendola in inglese, in francese, in arabo e in lingue e dialetti incomprensibili.
Compaiono come dal nulla una quindicina di bambini. Vestiti con pantaloni troppo lunghi arrotolati sulle caviglie e magliette colorate che arrivano al ginocchio. Gli uomini li passano avanti, verso la passerella, prendendoli in braccio per fargli scavalcare la folla. Sono macchie di colore e di speranza che navigano in un mare scuro. Appaiono anche le donne, vestite con ali fruscianti di coperte isotermiche, e sciamano compatte verso l’uscita unendosi ai bambini sulla banchina. Ma non a tutti i bambini, perché molti rimangono soli e si prendono la mano l’un l’altro e procedono in fila come orchestrati da una invisibile maestra.
“Adesso gli uomini” è la nuova frase, e non ha gran bisogno di echi esplicativi perché subito la massa nera si mette in movimento e come un liquido denso e compatto fuoriesce dalla nave attraversando il barcarizzo e sfociando sulla banchina. Da lì fluisce lenta verso la parte amministrativa del porto producendo appena un mesto ronzio di api morenti.
La nave ora è freddo metallo nudo. Il molo silenzioso e deserto. Il cielo si annuvola e un alito di vento smuove la bandiera e l’aria satura di gasolio e salsedine.
Allora tirano giù i sacchi dei cadaveri.
Una processione inesorabile. Trasportati a braccia da coppie di marinai che se li lanciano, accusando il contraccolpo quando il sacco è pesante, rimanendo ritti quando il sacco è corto e leggero.
E quando il sacco è troppo corto e leggero tutti quelli che osservano e persino gli stessi marinai sembrano soccombere ad un peso insostenibile.
Un peso che non c’è.
Ma c’è.
Cosa avete letto?
Il racconto che avete appena letto fa parte di una serie di articoli e racconti che da qualche mese sto scrivendo sul viaggio dei migranti.
L’idea è nata a Genova, all’incontro nazionale di Emergency. Lì un volontario, Yohannes Ghebrai, ha raccontato la sua storia. Sono tornata a casa intenzionata a scrivere un articolo su di lui. Dopo un lungo lavoro di documentazione ho iniziato a buttar giù parole e mi sono resa conto che non stavo raccontando la storia di una persona sola. Così ho deciso di aggiungere altri capitoli e altre, tante, persone:
- Prologo: Un grido in mezzo al mare.
- Capitolo 1: Attraverso il deserto.
- Capitolo 2: L’inferno libico
- Capitolo 3: Il mare
- Capitolo 4: Lo sbarco
- Capitolo 5: L’Italia
- Epilogo: Spezzare il cerchio
Un po’ di pazienza e li leggerete tutti.
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“Non dobbiamo lasciarci travolgere passivamente dall’emotività ma masticare e assaporare tutta questa sofferenza che proviamo, lasciarci squassare e straziare le budella e poi ricacarla fuori sotto forma di rivolta. Per evitare che questo accada un’altra sola maledetta volta”.
(il mio grido di battaglia)