Di come abbiamo protetto dei bambini dagli incontri protetti.
Quali storie vanno scritte e quali è più giusto non raccontare?
Mi pongo questa domanda ogni mattina, da anni.
Non in modo traumatico, questo no, piuttosto in modo che potremmo definire responsabile.
A volte mi getto sulle storie, istintiva e ribelle, seguo piste per mesi senza mai staccare il naso dalla traccia, come un cane da tartufo, le scrivo e poi, semplicemente, non le pubblico.
Perché?
Perché la storia o la sola osservazione di un fatto reale, è qualcosa che può influire sul fatto in sé, può modificarlo, può cambiarne il finale, davvero, nella realtà!
In fisica si chiama Effetto Hawthorne: se osservi un fenomeno, lo cambi.
Allora va fatto un bilancio, a mente fredda.
Scrivo storie vere di persone vere, spesso di gente che ha bisogno di aiuto, di vittime; devo capire quale impatto avranno questi racconti sulla loro realtà, se la cambieranno in meglio o in peggio, se la aiuteranno a diventare migliore o, al contrario, se la metteranno in pericolo.
Ci sono volte che scelgo di non pubblicare il frutto di interi
mesi di lavoro.
Non me ne cruccio. Faccio un file, lo spedisco alla Procura.
E’ più utile così.
Questa, invece, è una storia che scelgo di raccontare, nella convinzione che sarà un bene raccontarla e che sarà utile farla seguire da molte altre.
Questa è una di quelle storie che, raccontandole, possono cambiare la realtà, in meglio.
Ne sono convinta perché… lo ha già fatto.
Ma andiamo con ordine.
Due anni fa ho scritto “Tu”, la storia di una donna e mamma che tutt’ora è costretta a vivere nascosta dal suo ex marito.
Sì, tutt’ora, anche se sono passati ben 2 anni!
In questi due anni sono rimasta in contatto con Eva – non è il suo vero nome, ne uso uno di fantasia.
Le persone e le loro storie in qualche modo rimangono dentro di me, per sempre.
Di Eva vi posso dire che è sopravvissuta con le sue sole forze, che ha trovato un nuovo lavoro, che è riuscita a mandare le figlie a scuola grazie ad una Preside che ha accettato di iscriverle senza nullaosta (Grazie!!!) e che ha aspettato pazientemente che lo Stato si pronunciasse sul suo caso. Eva ha chiesto allo Stato un provvedimento restrittivo per il suo ex marito violento e una decisione sulla situazione della prole.
Nessuna pronuncia, ancora. Sono passati due anni ed Eva aspetta.
Nel frattempo lo Stato ha deciso di concedere incontri – seppur protetti – tra il padre e le sue figlie.
E qui inizia la nostra storia.
Eva mi telefona di sera, dopo che entrambe abbiamo messo a letto le bambine.
Eva capisce che il suo ex marito ha diritto a vedere le figlie, sì, ma è preoccupata. Soprattutto dalla modalità degli incontri protetti.
Gli assistenti sociali li hanno illustrati così (Tra parentesi riporto le mie reazioni):
– Ci sarà un incontro ogni settimana presso la sede del consultorio familiare (“E questo va bene”).
– Gli assistenti sociali saranno sempre presenti (“E anche questo è rassicurante”).
– Al termine di ogni incontro, il padre se ne andrà e le bambine rimarranno nella stanza per un colloquio di un quarto d’ora con una psicologa (“Ma, cosa sono SCEMI??????????????????????????”)
Eh sì, penso e grido proprio questo: “Cosa sono, scemi?”.
Non dovrebbero essere incontri protetti??? Qui, di protetto, non c’è proprio nulla.
Vi ricordo che Eva e le sue figlie vivono nascoste, il padre non sa dove. Trattenendo le bambine per 15 minuti, gli assistenti sociali concederanno al padre il tempo ottimale per salire in auto, aspettare in doppia fila di fronte alla sede del consultorio e pedinare comodamente l’ex moglie e le figlie fino al domicilio segreto. Non ci vuole una laurea in sociologia per capirlo!
E’ soprattutto per questo che Eva è preoccupata. Lo ha fatto presente agli assistenti sociali, ma quelli hanno risposto che il protocollo è questo.
Il protocollo.
Eva si fida di questi assistenti sociali, sono stati molto bravi fino ad ora. Ma rimane preoccupata per la modalità degli incontri protetti.
Mi racconta anche di aver subito nuove minacce dal suo ex marito. Minacce terribili, anche scritte tra l’altro. Una serie di atti inquietanti che non vi racconto, ma fidatevi! Ovviamente le ha tutte denunciate.
Le sue sono paure eccessive?
No, Eva, non lo sono. Anche io sono preoccupatissima.
E infatti, quella notte, non dormo.
Crollo emotivo.
E un tipo di crollo che gli scrittori, soprattutto quelli che si occupano di storie vere, conoscono bene: la realtà che tentano di raccontare, di denunciare, cessa all’improvviso di essere mera materia statica da osservare e riferire.
Io in genere racconto storie già avvenute. Stavolta non è così: non sono arrivata tardi, non ho di fronte cadaveri e transenne della polizia.
Le cose stanno avvenendo ora. Qui, davanti a me.
Eppure mi sento come se fossi arrivata tardi, come se il finale di questa storia fosse già stato scritto. L’ineluttabilità di eventi che, purtroppo, so prevedere, mi preme la testa sul cuscino.
Sbaglio ad essere così preoccupata? Sono le storie tragiche che ho scritto a non permettermi di immaginare un finale diverso? Cosa posso fare io? Sono solo una che le storie le scrive, non le posso cambiare. Ci deve pensare la polizia, la legge, IL PROTOCOLLO…
Salto in piedi, anche se è notte fonda: “Bruciamolo, il protocollo!”
Questa storia finirà come tutte le altre, se nessuno fa nulla. Ora siamo arrivati in tempo e possiamo fare qualcosa!
Mi sento come quei documentaristi che in un secondo hanno mandato a puttane tutti i loro principi professionali, tutti gli anni trascorsi ad osservare staticamente cuccioli di impala che venivano sbranati. Ve li ricordate? Un giorno sono andati in Antartide e lì hanno detto basta, hanno preso in mano la situazione e salvato i pinguini.
Che si fotta il protocollo. Evviva l’Effetto Hawthorne !!!
Ma cosa, cosa si può fare? Chi può aiutare Eva?
Mi torna in mente Antonella Penati. E’ la mamma di Federico Barakat, ucciso dal padre quando aveva 8 anni, durante un incontro protetto, davanti agli assistenti sociali.
Antonella adesso ha un’associazione, Federico nel Cuore.
“La posso chiamare”?
“Certo” mi risponde Eva.
Così telefono ad Antonella. Ascolta attentamente tutta la storia. Mi conferma che abbiamo fatto bene a preoccuparci. I segnali (allude alla recente serie di atti minacciosi subiti da Eva) ci sono tutti. Ci dà alcuni buoni suggerimenti. Non spara a zero sull’operato degli assistenti sociali, anzi, consiglia di parlarci e raccontare loro, di nuovo, tutti i fatti.
Secondo Antonella, la situazione può essere molto pericolosa per le bambine. Oltre all’ovvia (per noi!) questione dei 15 minuti, anche gli incontri protetti in sé possono essere a rischio.
In questo caso, secondo Antonella, gli incontri protetti non andrebbero proprio fatti.
Antonella è una donna seria e professionale, sa quello che dice e non lo dice perché è successo a lei ma perché ha imparato a riconoscere alcuni segnali.
“Il primo incontro andrà bene, il padre sarà tranquillo. E’ il secondo quello in cui potrebbe sfogare la sua rabbia”.
Questa è la profezia di Antonella.
Mi chiedo: abbiamo qualcosa che non va, io e Antonella? Vediamo ogni uomo, marito e padre come un potenziale assassino ed emettiamo allarmanti profezie? Siamo due pazze (tre, con Eva) paranoiche?
No.
Sappiamo semplicemente riconoscere alcuni evidenti segnali perché le storie di abusi in famiglia hanno tutte lo stesso iter. I personaggi, le azioni, perfino le parole sui biglietti di minaccia sono sempre le stesse. Sono storie che io conosco a memoria per averle ascoltate e raccontate. Che Eva e Antonella conoscono meglio di me, perché le hanno anche vissute.
E, infatti, la profezia di Antonella si avvera.
Per fortuna gli assistenti sociali sono preparati perché, nel frattempo, Eva, forte dei consigli di Antonella, ci ha parlato, ha insistito, ha raccontato, ha mostrato materiale e ha anche ricordato la storia di Federico.
Gli assistenti sociali hanno cambiato il protocollo: il padre sarà trattenuto 15 minuti dopo ogni incontro, dando così modo a Eva e alle figlie di scappar via e tornare a rifugiarsi nella sicura casa segreta. Massima attenzione a tutto ciò che dice e fa l’uomo.
Il primo incontro va liscio, come il secondo.
Durante la terza seduta, l’uomo fa ciò che aveva detto Antonella: viene colto pian piano dalla rabbia. Fa qualche battuta al vetriolo, parla male di Eva alle figlie, è nervoso. Ma l’assistente sociale è preparata e se ne accorge subito. Immediatamente, fa uscire le bambine, le mette al sicuro.
Rimasto solo, l’uomo aggredisce fisicamente l’assistente sociale. Colleghi accorrono in aiuto. Viene fermato.
Come lo sapeva Antonella?
Antonella non è una maga o una veggente. E’ una persona capace di ascoltare e capire. La sua non era una profezia, ma una previsione basata sull’esperienza. Esatta. Con l’unico scarto di una seduta.
Gli incontri protetti con l’ex marito di Eva vengono sospesi. Diciamo pure annullati.
Tre donne, tre “matte paranoiche” (come le definirebbero i fan del decreto Pillon) hanno cambiato il finale di una storia.
Come ci sono riuscite?
L’Effetto Hawthorne dice che se osservi un fenomeno, lo cambi.
Ma, vi assicuro, lo cambi di più se lo racconti, se lo spieghi alle persone.
Il fenomeno della violenza familiare non è materia nuova. Ma non lo raccontiamo abbastanza o, meglio, lo raccontiamo solo quando è troppo tardi, quando tutto è già accaduto e nulla può cambiare.
Proviamo a raccontarlo PRIMA.
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