Nella primavera del 1986 avevo dieci anni e non sapevo cosa fosse il razzismo.

Frequentavo la Franchetti, una delle poche scuole elementari statali romane già multiculturali, non per scelta ma per caso dato che si trovava a san Saba, a pochi passi dalla FAO. Ero cresciuta assieme a bambini con la pelle più scura o più chiara della mia e per me era la normalità.

Razzismo era una parola che non conoscevo. Mamma e papà non l’avevano mai usata, perché non ve n’era bisogno. Nessuno era razzista attorno a noi, e la parola razzismo non ci serviva.

Poi arrivò la maestra Aprea.

Nella mia classe c’era un bambino. Mosè lo chiamavamo, ma credo che il nome esatto fosse Moises. La prima cosa che ricordo di lui era che era il secondo campione di palla prigioniera della scuola. Il secondo perché il primo ero io. Quando giocavamo nella stessa squadra eravamo imbattibili. Poi mi ruppi un braccio. Non riuscivo più a tirare, ma a scappare si. Rimanevo sola in campo e non potevo lanciare la palla, così facevo a cambio con Mosè, che tirava al posto mio. La seconda cosa che ricordo di lui è che era un tipo in gamba. Era amico del potenziale bullo della scuola ma non era un bullo e anzi tendeva a riportare i bulli alla normalità. Un ragazzino molto corretto. E poi non ricordo altro perché ero piccola e dopo le elementari non lo vidi mai più. Ah, era nero.

La maestra Aprea era fascista. Io allora non sapevo cosa volesse dire ma nella mia ottica di bambina bisognava sempre ascoltare e rispettare la maestra e così la ascoltavo e rispettavo. Credevo che Mussolini fosse buono perché la maestra Aprea non faceva altro che raccontarci di tutte le bonifiche che aveva fatto nelle campagne italiane. Ci faceva leggere il libro di storia come se fosse la cronaca del mondiale di calcio e quando arrivammo alla fine della seconda guerra mondiale eravamo tutti tristi perché l’Italia aveva perso.

Nella primavera del 1986 scoppiò una centrale nucleare, ma non sapevo cosa significasse. Sentivo i miei genitori parlarne e li aiutavo a fare scorta di latte a lunga conservazione. Il mio problema era solo che odiavo il latte a lunga conservazione. Decisi di non bere più latte e mi vennero delle macchie bianche sulle unghie. Alla mensa scolastica il latte scomparve dalla tavola. Non me ne importava niente perché mi aveva sempre fatto abbastanza schifo bere il latte a pranzo, specialmente quando c’era pasta al sugo. Un sugo stracotto il cui odore acido impregnava le pareti dello scantinato che ci faceva da mensa, berci sopra del latte sarebbe stata l’anticamera del vomito. Il latte ricomparve dopo qualche mese ma io non ci feci neanche caso.

La maestra Aprea ci fece studiare il copione per la recita scolastica: una commedia che lei metteva in scena da anni, forse da decenni, con tutti i suoi alunni. Non ricordo di cosa parlasse e di tutti i personaggi, che dovevano essere tanti, ora ne ricordo solo uno: il servo negro.

Il servo negro lo fece fare a Mosè. Doveva parlare con le B. “Si Badrone, il Branzo è Bronto Badrone”.

A dieci anni ero davvero ignorante. Sapevo cosa fosse uno schiavo, ma non cosa fosse uno schiavo negro. Ricordate? Non sapevo che esistessero il fascismo, il nucleare e il razzismo. Nella mia ottica le persone potevano essere bianche o nere o di altri colori, gli schiavi potevano essere bianchi o neri o di altri colori. Punto. Del resto la commedia che stavamo rappresentando non affrontava certo il problema della schiavitù: il servo negro era solo un personaggio minore, poco più che una comparsa, un soprammobile, e appariva normale che i suoi padroni l’avessero in casa. Non diedi peso alla cosa. Non lo raccontai a casa.

Qualche giorno dopo due bambine, Erika e Manuela, dissero in classe che i loro genitori avevano parlato con la maestra Aprea ed erano autorizzate a NON partecipare alla recita. Perché?
Per il razzismo.

La maestra Aprea, tutta imbarazzata, prese immediatamente la parola e ci spiegò che aveva dato la parte del servo negro a Mosè solo per esigenze di scena. Invece di truccare un altro bambino da negro usava quello già nero. Non sto paragrafando, disse proprio così. E fece perno sulla nostra logica: non si fa prima così? Perché perdere tempo a truccarne un altro? I bambini sono logici e tutti, Mosè compreso, le demmo ragione. Ci sembrava una cosa così normale dare la parte del nero a un nero che nessun altro parlò più della questione. E ancora non lo raccontammo a casa.

Arrivò il giorno della recita. I genitori si sedettero sulle nostre sedie e la recita iniziò con il servo negro che faceva accomodare i primi personaggi. Non ricordo altro di quel giorno. La scuola finì e si andò in vacanza. Punto.

Anni dopo, quando ero al liceo, mia madre mi raccontò che quel giorno, all’inizio della recita, non appena apparve Mosè, si era sentita morire. Voleva alzarsi e uscire dall’aula ma non lo fece temendo che io, dal palco, mi spaventassi. Alcuni genitori lo avevano fatto e nei giorni successivi tutti avevano protestato con modi accesi con la maestra Aprea. Ma noi bambini non eravamo stati coinvolti.

Al liceo, nonostante gli insegnamenti della maestra Aprea, ero impegnatissima in occupazioni di scuole, manifestazioni filopalestinesi e in ogni tipo di difesa dei diritti degli altri.

Le parole di mia madre furono un lampo che mi squassò la testa. Mosè, la recita, il 1986: il mio cervello aveva oscurato l’episodio. Ma non lo aveva cancellato, ora tornava tutto a galla coperto da una spessa patina di dolore. Perché ora capivo. Perché ora sapevo.

Rabbia.

Rabbia contro i miei genitori che non mi avevano concesso il diritto di difendere un amico. Ma soprattutto rabbia contro me stessa per non aver capito da sola che il mio amico andava difeso.

Questa rabbia c’è anche oggi, trent’anni esatti dopo il fatto, ma non sono più arrabbiata con i miei genitori perché ho capito che avevano sbagliato cercando di proteggere noi bambini da qualcosa, il razzismo, che giudicavano privo di senso. La logica c’era: non ti vado a raccontare le cose prive di senso perché voglio costruire un mondo che un senso ce l’abbia.

Ma era un errore. Grosso.

Per costruire un mondo bello è necessario sapere cosa è brutto.

Adesso conosco le brutture e le vergogne del mondo, so riconoscere un razzista solo da una parola. Mi so difendere e so difendere. Vorrei tornare indietro al 1986 con tutta questa conoscenza e raccontarvi di nuovo quella storia come nei “Bastards” di Tarantino.

Era il giorno della prima lettura del copione. La maestra Aprea leggeva piano, cambiando un po’ voce per i diversi personaggi. Arrivò al punto del servo.
Erika alzò decisa la mano: “Signora Maestra, non le pare un testo razzista?”
Manuela: “Inattuale per altro”
Tutti gli altri bambini:
“Se vogliamo parlare di schiavismo possiamo trovare un testo che affronti l’argomento in maniera corretta”.
“Possiamo vedere in biblioteca se ci consigliano un testo più adatto”
“Mio padre dice che raffigurare un uomo di colore che parla così è una grave forma di discriminazione”.
“Mia mamma dice che la multiculturalità è un valore e il razzismo è una piaga sociale”
“Mio nonno dice che Mussolini ha avuto quello che si meritava”

Ecco, tornando indietro la “bomba” l’avrei fatta esplodere, come ho fatto esplodere bombe nel resto della mia vita (a un seminario alla RAI per esempio, ma è un’altra storia).

Adesso che sono mamma anche io il diritto di far esplodere questa indignazione lo voglio concedere, tutto, a mia figlia.

Perché la storia non si può cambiare tornando indietro.
Ma si può cambiare andando avanti.

bambino che fa una moschea di sabbia

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