Amo il cinema documentario. Ma a volte, come nel caso di “Hot Girls Wanted”, penso che sia un’arma troppo potente in mano ad un uomo, il regista, che non si rende conto dei danni collaterali.

Ho appena visto “Hot Girls Wanted”, documentario prodotto dall’attrice e sceneggiatrice Rashida Jones e diretto da Jill Bauer e Ronna Gradus.
Ha avuto molto successo al Sundance Film Festival e adesso è stato acquistato dalla piattaforma Netflix.

Il film a mio parere è bellissimo.
Scava dentro il nuovo sogno americano della popolarità internet a tutti i costi e ci trova quello stesso ambiente che negli USA avevano raccontato i registi indipendenti degli anni Settanta: periferia, costine di maiale bruciacchiate, mamme grasse sul divano. Casa.

Ripeto, il film è bellissimo.
La macchina da presa entra nelle stanze della “villa a Miami”, terra promessa per otto diciottenni scappate di casa, e ne rivela subito l’inganno: brande accatastate, cumuli di vestiti e valige in terra, il naso di un cane che fruga curioso tra lingerie dozzinale. Fuori ancora periferia. A perdita d’occhio. Uguale uguale a quella di casa.

Il film è bellissimo ma di una crudeltà spaventosa.
Le ragazzine non dicono ai genitori che girano film porno amatoriali. Non lo dicono ai fidanzati. Il loro carceriere/agente, Riley, gli fa subito notare l’assurdità della cosa: le loro famiglie lo scopriranno immediatamente dopo la pubblicazione online dei video, perché tutti guardano i porno. Tutti.
Riley è un kapò, al servizio dell’industria del porno 24 ore al giorno. Quando andava a scuola lo prendevano in giro, oggi si sente arrivato. E’ a suo modo profondo. Tifa per le sue ragazze, ma non si fa illusioni: una ragazzina nel porno diventa famosa per tre mesi al massimo, e poi sparisce. Chi arriva a sei mesi è un fenomeno. Dopo fine, stop, si torna a casa e si viene sostituiti da altra carne, più fresca.

hotgirlwanted

Carne. L’industria del porno sfrutta corpi. E poi li butta via. Usa e getta.
Ma questo è risaputo, non mi fa troppa impressione.

Rimango invece allibita quando la macchina da presa segue Tressa, nome d’arte Stella May, a casa, dal suo normalissimo fidanzato,  da suo padre e sua madre, a cui ora rivela tutto.
Mi blocco.
Mi chiedo: cosa sto guardando esattamente?
Inizio a dubitare dell’autenticità di questo documentario. Forse, mi dico e quasi ci spero, è una docufiction ricostruita con attori.
Fermo il film e vado su google. Digito “Stella May”. Escono decine di video porno. E’ proprio lei!

Oddio.

Rimetto in play il film. Tressa è vera, piange davvero e parla con la sua famiglia. La macchina da presa la penetra molto più a fondo e più violentemente di qualsiasi pene.

Faccio il punto della situazione.
Stella May è una pornostar diciottenne bella e sexy il cui corpo è stato sfruttato dall’industria del porno.
Tressa è una diciottenne spaventata e con i brufoli la cui anima è stata sfruttata dai creatori di questo documentario.
Mi sembra la stessa identica violenza, con l’unica differenza che la macchina da presa del documentarista riesce a penetrare e stuprare meglio della telecamera del pornografo.

La realtà fa più male.

Grazie a Netflix e all’industria del porno la vita e il corpo di Tressa/Stella May sono ora online, di dominio pubblico. Ci rimarranno per sempre.
I suoi vicini di casa ad Arlington, Texas, sicuramente hanno visto tutti i film: i porno e il documentario.
Le compagne di scuola che prima le davano della troia ma sotto sotto le invidiavano una presunta vita agiata ora probabilmente le danno della poveraccia patetica e stupida capace di rovinarsi la vita in soli tre mesi. Sarebbe stata un po’ meno umiliante la prima immagine. Ma certo, il messaggio potrebbe salvare altre ragazzine.

Mi chiedo, da scrittrice, quale sia il confine tra il raccontare e il violentare.
Certe volte forse la realtà non andrebbe raccontata. Non così.

Ma il film è bellissimo. Ormai è fatto ed è online, quindi andatelo a vedere.

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