No it wont  be the end..i guarantee you ..theres more to this”

(Non finirà qui… te lo garantisco…  ci sarà più di questo)

Così scrive l’uomo a Silvia (nome di fantasia) dopo che lei lo lascia.
L’uomo chi?
L’uomo che una volta Silvia amava, il padre dei suoi figli, due bambini di 5 e 10 anni.




L’uomo che le ha inflitto anni e anni di violenze, fisiche e psicologiche. Tutta la gamma: botte, appropriazione di tutti i suoi risparmi, aggiogamento psicologico.
L’uomo da cui è finalmente riuscita a fuggire supportata dai servizi sociali e dalle istituzioni che raccomandavano di non permettere che il padre frequentasse da solo i bambini.

Ma la minaccia aleggia nell’aria: “Non finirà qui…

Non finiscono queste storie, non finiscono mai. Le ferite e le cicatrici lasciate sul corpo, nella testa e nel cuore da anni di abusi rimangono tatuate per sempre nell’anima.

Stress post-traumatico, lo chiamano.

Silvia ha paura. Il terrore fa ancora parte di lei. Così, quando pochi mesi fa riceve un anonimo messaggio su whatsapp con la foto di un fucile caricato a pallottole e puntato verso di lei, chiede ancora aiuto alle autorità, chiede protezione per lei e per i suoi bambini.

Le “autorità”, eccole qui, quella rete di sicurezza che il cittadino dovrebbe avere in occasioni del genere. Polizia, giudici, assistenti sociali. Entità alle quali il cittadino debole si rivolge per ricevere protezione, giustizia, sostegno.

Le autorità nel caso di Silvia offrono tutto questo, ma fanno anche qualcosa in più: accertano che lei ha paura, che è depressa, che è in preda ad uno stato di ansia.

Silvia racconta il suo passato e mostra documenti:  rapporti della polizia chiamata dai vicini che l’hanno soccorsa sanguinante, il verbale degli agenti in ospedale mentre gli infermieri le medicano un labbro spaccato, la permanenza presso una casa di protezione per donne vittime di violenza domestica, il tentativo di lui di costringerla ad abortire quando è rimasta incinta e tanti, tantissimi verbali della polizia venuta a salvarla in molteplici occasioni. Anni e anni di documenti.

Un passato che pesa.

Ma quanto pesa?

Prima di finire di raccontare la vicenda di Silvia voglio fare un passo indietro e ricordare una storia avvenuta anni fa. Perché Silvia mi ricorda un’altra donna, a cui darò un altro nome di fantasia: Carla.

Anche Carla era depressa, anche i vicini di Carla chiamavano la polizia quando sentivano le sue grida di aiuto, anche Carla aveva dei figli. Suo marito portava una pistola di ordinanza e un giorno la “dimenticò” sul comò, carica, e andò al lavoro senza. Carla si sparò, ma all’ultimo momento forse qualcosa dentro di lei le urlò che Lui non poteva ucciderla così, il colpo le sfiorò la testa, le bruciò i capelli e il proiettile si conficcò nel muro del salotto buono.

Carla era sopravvissuta.

In queste storie, impariamolo, ci sono sempre i cosiddetti danni collaterali. Quando si vuole colpire una donna, ma lei si sottrae, fugge, si protegge, allora si colpisce la parte più debole e indifesa di lei: i suoi figli.

Non finirà qui… te lo garantisco…  ci sarà più di questo…

 

Il marito di Carla la citò in tribunale chiedendo l’affido esclusivo della prole perché, sosteneva il suo avvocato, la mamma era troppo depressa e psicotica per occuparsene. E il tribunale gli diede ragione: affido esclusivo al padre. Carla non era in tribunale per la lettura della sentenza, quel giorno si vestì e si truccò e preferì andare alla recita della scuola della sua bambina. Era seduta in prima fila, in mezzo alle altre mamme, ad applaudire.

Carla e Silvia sembrano la stessa donna, la stessa mamma.

Una di loro mi ha detto (quale delle due è uguale perché l’avrebbero potuto dire entrambe): “La peggiore ripercussione di ciò che avevo subito era l’impossibilità di riuscire a difendere me stessa, una sorta di ragnatela che mi paralizzava e mi lasciava inerme”.

Torniamo a Silvia e alla sua storia, che è di poche settimane fa.

Quanto pesa il passato di Silvia, ci eravamo chiesti. Se lo è chiesto anche il Tribunale Ordinario e ha deciso che pesa troppo per poterle consentire di fare la mamma.  L’ha giudicata “non in grado di contenere il proprio stato di ansia”.

E i bambini? A chi li ha affidati?

Non alla mamma, non alla nonna materna, non a una delle due o a entrambe con il supporto dei servizi sociali ma… all’altro genitore.

Come??????????????

Al padre??? A quello che ubriaco ha sfondato la porta della stanza di Silvia e ha colpito uno dei suoi bambini così forte da farlo cozzare contro una libreria provocandogli un occhio nero? A quello che i servizi sociali hanno ritenuto pericoloso per l’incolumità dei due piccoli tanto da scrivere: ”e’ mia valutazione/giudizio che se il sig. XXX dovesse avere contatti/accesso non supervisionati con i bambini il rischio di incolumità per i minori sarebbe significativo ed elevato” ?

Si.

Il padre è cittadino straniero ha ora portato all’estero i due bambini.
Questo nonostante già un anno fa  un altro tribunale italiano (il Tribunale del Minori) avesse decretato che i bambini dovessero vivere in Italia perché era qui che avevano sempre vissuto e qui era situato il baricentro dei loro legami affettivi. Nella sentenza, tra l’altro, si ricordava anche che Silvia aveva subito “reiterate violenze domestiche” da parte del padre dei bambini.

Silvia è disperata.

I bimbi hanno lasciato la scuola, gli amici, la nonna e soprattutto la mamma, che non può più vederli. Due bambini felici e senza problemi portati via all’improvviso.

Mentre parliamo sono lontani. E non stanno bene. La bambina da segni preoccupanti, incubi, fa la pipì a letto. Silvia è preoccupatissima.

E’ stato depositato immediatamente un ricorso contro questo choccante provvedimento.

Choccante non solo per il singolo caso, ma anche per il principio in sé: a una mamma vittima di abusi da parte di un uomo sono stati tolti i figli e affidati a quello stesso uomo perché lei, la donna, è troppo traumatizzata dalle violenze subite.

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