Un leggero alito arrivato finalmente dal mare annunciò l’incedere della sera, sfumò il ribollire dell’asfalto e mi sospinse avanti, lungo il viale deserto, tra cumuli di brace e carcasse di oggetti oramai irriconoscibili. Giocai a immaginare cosa dovessero essere in una vita precedente: un cassonetto, un motorino. Giocai perché dovevo tenere impegnata la mente in un passatempo qualunque, uno innocuo, uno normale, da bambini. Ecco, da bambini, come quando nei lunghi viaggi guardavo fuori dal finestrino della Centoventotto di papà e immaginavo una lunga lama tagliare il panorama che scorreva: siepi, lampioni, alberi. Tentai di rifarlo quel gioco, ma su quel viale non era rimasto più nulla da tagliare.
Un uomo e due donne mi vennero incontro tentando di correre. Erano esausti. Muovevano la bocca e ci misi un po’, nel fracasso degli elicotteri, a capire cosa mi stessero dicendo.
Urlavano.
Di tornare indietro.
Di fuggire.
Di quel giorno, 20 luglio 2001, ricordano tutti che faceva tanto caldo. Nei racconti e nei libri, nelle poesie e nelle canzoni, anche a distanza di quindici anni, è onnipresente un sole implacabile. Evidentemente il cervello umano annichilito dall’orrore si rifugia nella rassicurante meteorologia.
Anche nei miei ricordi faceva tanto caldo. Molte ore prima ero a piazza Dante e faticavo a ballare. Eppure la musica era bellissima e l’atmosfera speciale. Avevamo riempito di fiori colorati la rete metallica che transennava la Zona Rossa. Un vecchietto che nella mia testa di ventenne poteva avere anche novant’anni era riuscito a fare un piccolo buco ed infilarsi. Dall’altra parte aveva alzato il pugno e la piazza era esplosa in un caldo applauso. Alcuni agenti avevano riso e l’avevano scortato fuori in modo cordiale. Del resto era una manifestazione pacifica. Ero felice di essere lì.
A Genova ci ero arrivata il mercoledì con il treno speciale assieme al mio amico Red, una telecamera, un grosso monitor e un pass stampa. Per dormire avevamo due opzioni: lo stadio Carlini e una scuola dove alloggiavano molti studenti di cinema come noi, la scuola Diaz. Ma un mio amico genovese, che faceva il portiere in uno stabile del centro, ci ospitò in un appartamento vuoto.
Eravamo ragazzi, guardavamo il mondo attraverso l’obiettivo della telecamera e ci piaceva sempre tutto ciò che vedevamo. Avevamo ballato al concerto di Manu Chao e 99 posse, fatto bellissime riprese al corteo del giovedì. Le finestre della nostra casa davano su una strada in Zona Rossa. Di notte spegnevamo le luci e filmavamo il nulla, così, per il gusto di filmare il proibito.
Eravamo ragazzi.
Quel venerdì mattina io e Red avevamo deciso di dividerci per darmi modo di andare ad aiutare il gruppo dei miei maestri, capeggiato da Mario Monicelli, alle prese con le riprese di “Un mondo diverso è possibile. Il cinema italiano filma il g8”. Ero stata assegnata a piazza Dante, avevamo già girato molte immagini, e adesso ero libera di ballare.
Ma faceva caldo.
Poi misero Bregovic e il caldo non mi fermò più. Mi gettai in una danza che coinvolgeva tutta la piazza.
Eravamo ragazzi.
La folla ad un certo punto si diradò lentamente: da dietro la rete arrivavano getti d’acqua. Ma la musica continuava e alcuni ragazzi andavano a ballare sotto il getto d’acqua.
Faceva caldo.
Vado anche io, mi dissi, ma poi pensai che rimanere tutto il giorno con i vestiti bagnati non fosse una buona idea, e non ci andai. Giusto il tempo di un pensiero. Una ragazza uscì dal getto d’acqua, urlante di dolore e completamente cieca: l’acqua conteneva sostanze tossiche.
Il fuggi fuggi generale di gente cieca e terrorizzata mi scaraventò indietro, con tutto il resto della piazza. Poi un buco di memoria, con qualche lampo stroboscopico: lampioni, tombini, un ragazzo pieno di sangue, scarpe, Daniele Segre che era l’unico che mi chiamava Sarina invece che Sarita e che mi urlò da lontano di scappare, l’asfalto, una bottiglia d’acqua, nomi di vie sconosciute, altre scarpe, il sole.
Il sole. Possibile che di quella giornata mi ricordi sempre il sole?
Ero scappata da piazza Dante, avevo perso tutti quelli che conoscevo, ero sola, ero illesa e stavo davanti ad una cabina telefonica aspettando il mio turno. Perché? Non avevo un cellulare? Si, ce lo avevo nel 2001. Forse non avevo credito? I ragazzi non avevano mai credito sul cellulare e facevano squilli, non telefonate. No. Io credito ce l’avevo e non ho mai fatto squilli. Ero assennata, non sarei partita con un cellulare senza credito.
Ero a quella cabina perché a Genova in quei giorni i cellulari non avevano campo.
Chi chiamavo?
Davide, chiamavo Davide che non era a Genova. Era il mio ragazzo, genovese, che doveva arrivare quel giorno da Milano. I treni erano in ritardo. Continuava a darmi appuntamenti diversi, cambiava ore e posti che non conoscevo.
Infatti ricordo altre cabine telefoniche. Una davanti ad un ospedale. Ma in quella non stavo telefonando, no. Ero nascosta, con altri ragazzi, conosciuti mezz’ora prima. Uno aveva una profonda ferita alla testa e lo avevamo portato al pronto soccorso ma un inserviente o un portantino ci aveva visti e ci aveva detto di non entrare, di portarlo via, che tutti i feriti poi li portavano a Bolzaneto. Che era un carcere, mi spiegarono.
Era un ragazzo, un ragazzo ferito, pensai. Perché in carcere?
Andammo via, i suoi amici lo portarono da qualche altra parte, non so dove, io non potevo seguirli perché dovevo ritrovare Davide, sedermi, bere dell’acqua, fermarmi, smettere di girare come una trottola in una città che non conoscevo e che era piena di uomini in divisa che volevano spaccarmi la testa a manganellate come avevano fatto a quel ragazzo o gettarmi in faccia acqua e acido come avevano fatto a quella ragazza. Ma soprattutto ricordo che avevo caldo.
Grazie cervello mio che ti lasci accecare i neuroni da quel sole e sostituire l’orrore con i tuoi raggi!
Un sms. Arrivò un sms. Noi ragazzi ci mandavamo un sacco di sms, che arrivavano anche quando non c’era campo. Era di Davide, era alla stazione. Diceva di percorrere un viale chiamato Corso Torino, mi avrebbe aspettato alla fine.
Lo imboccai dal mare e subito mi accorsi che prima di me ci era transitata una guerriglia.
Ma non tornai indietro. Neanche quando me lo urlarono i tre che scappavano, neanche quando me lo urlarono altri che arrivavano alla spicciolata con le facce più scure del fumo che si ergeva dai cassonetti: torna indietro, torna indietro.
E io no. Erano troppe ore che non vedevo una faccia conosciuta e che vagavo sola in questo orrore. Io proseguivo, non mi fermavo, avanzavo. Un piede avanti all’altro, come un automa, in mezzo al fumo e al frastuono degli elicotteri.
Non mi fermai.
Neanche quando davanti al mio piede trovai una pozza di sangue.
Non l’avevo mai vista prima una pozza di sangue. Pensai che potesse essere qualcos’altro. La contemplai mentre l’aggiravo. Poco più avanti continuava più stretta, terminando in una striscia sempre più sottile e poi gocce. Seguivo le gocce, come in un gioco. Tenere occupata la mente per dimenticare l’orrore, la stanchezza e il caldo.
Le gocce finivano quasi alla fine di Corso Torino. Erano circa le cinque del pomeriggio ed ero arrivata alla fine di corso Torino.
Alla fine di Corso Torino, ora lo so ma allora lo ignoravo, si gira a destra e c’è piazza Alimonda.
Alla fine delle gocce alzai gli occhi. Giusto il tempo di vedere una massa di gente che correva verso di me. Giusto il tempo di girarmi e i primi mi avevano già sorpassata, miracolosamente senza investirmi. Erano ragazzi e urlavano, urlavano di scappare.
Solo allora scappai, all’unisono con quella massa, senza sapere da cosa scappavo.
Correvo veloce nonostante la stanchezza. I piedi doloranti non toccavano quasi terra per quanto volavo. Ma mi sentii afferrare da dietro, per lo zainetto. Non fermare, solo afferrare, accompagnare. Era Davide, assieme ai suoi amici.
Corremmo ancora. La carica della polizia non ci raggiunse e mi portarono via.
Ricordo qualche ora dopo una scogliera, il mare e il telefono che si mise a squillare. Era Giorgio Arlorio, dicevano che era morto un manifestante e stava chiamando tutti i suoi studenti per accertarsi che stessero bene. La televisione non aveva ancora diffuso il nome. Non ricordo quando dissero che era Carlo Giuliani. Un ragazzo.
Attaccai il telefono e faceva ancora caldo.
Sarita. 20 luglio 2016.

Nota: se volete sapere davvero ciò che successe quel giorno guardate il film “Carlo Giuliani, ragazzo” di Francesca Comencini. E’ un documentario che ricostruisce, attraverso prove visive e quindi oggettive, non parole come le mie, l’ultima giornata di vita di Carlo, che non era un black bloc o un violento o uno che doveva rimanere a casa o uno che non aveva diritto di manifestare o uno che se l’è cercata. Non era niente di tutto ciò. L’unica cosa vera è che era un ragazzo.
A Genova il 20 luglio del 2001, a manifestare per la pace, c’erano i vecchi e c’erano i ragazzi.
Seduti in poltrona, a guardare la tv che diceva quanto eravamo cattivi, c’erano tutti gli altri.
E siccome su quella giornata ci hanno scritto un sacco di belle canzoni risentiamone assieme alcune.
- Francesco Guccini – Piazza Alimonda
- Modena City Ramblers – La Legge Giusta
- 99 Posse – Mai più io sarò saggio
- Ska-P – Solamente Por Pensar
e qui ci sono tutte le altre, sono tantissime!
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Se c’eravate scrivetelo anche voi un pezzo di ricordo di quel giorno.
Se c’eravate probabilmente anche la vostra mente è rimasta accecata da quel sole.
Se c’eravate probabilmente anche voi passate vicino ad un poliziotto o un militare o un vigile o un alpino o una guardia forestale con il timore che si ha vicino ad una bestia feroce di cui non si è sicuri tenga la catena.
(Solo i Vigili del fuoco sono rimasti gli stessi di sempre. Perchè disertarono)
Se c’eravate eravamo uno accanto all’altra.
Ritrovarsi fa bene.
Uno che cerca di ammazzare un ragazzo carabiniere con un estintore ha sicuramente dirito a diventare santo.
Immagino tu fossi in poltrona a vedere la tv.
20 luglio 2017
Dopo 16 anni lo stato d’animo che ho descritto in questo racconto è rimasto inalterato. Paura e Delirio.
Lo Stato Italiano in questi anni non ha aiutato me e le centinaia di migliaia di testimoni di quel giorno terribile a riprendere fiducia negli uomini in divisa.
Qualche giorno fa addirittura ha restituito pistola e distintivo ad agenti che si sono macchiati di crimini orribili contro ragazzi indifesi.
Ora girano per le strade italiane in divisa. Con una pistola. Carica.
Eravamo ragazzi e ci avete spezzato per sempre la fiducia in voi.
Ora siamo cresciuti.
E se il nostro cervello annichilito dall’orrore prova a rifugiarsi nella rassicurante meteorologia diciamo NO.
Faceva caldo, si.
Eravamo ragazzi, si.
Ma non dimentichiamo. Questo NO.
Agghiacciante!!!
Le lacrime continuano a scendere copiose…il dolore è forte….
Io in quei giorni ero a casa, forse anche sul divano ma posso dirti che nonostante tutto il martellare mediatico contro questi “ragazzi”, questo tentare di farli passare per delinquenti, anche dal divano…. se solo non ti fermavi alle apparenze, era chiaro uno sporco tentativo di manipolare la verità. Ed in tanti abbiamo continuato a denunciare la falsità delle informazioni. Confermate purtroppo in grave ritardo e con una grave mancanza di provvedimenti. Continua a parlare ed a scrivere, ne abbiamo un enorme bisogno.