Tutti parlano dell’ultimo caso di femminicidio locale, Sara Di Pietrantonio, e degli automobilisti che non si sono fermati ad aiutarla.
Femminicidio.
L’uomo che ammazza una donna con il fuoco.
L’uomo che ammazza una donna girandosi a guardare da un’altra parte.
Con pochi tratti ecco l’identikit dell’intero genere maschile: tirannico, crudele, iroso, ma soprattutto VILE.
Possibile?
Da donna che è andata a vivere con un uomo che le ha salvato la vita tra le onde dico di NO e vi scrivo questo racconto per farvi capire che non mi sono presa l’unico maschio che si getta nel pericolo per salvare una sconosciuta.
Ce ne sono tanti altri.
E soprattutto che il femminicidio si previene educando i nostri figli.
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Anni fa andavo spesso sui set cinematografici dei film che scrivevo. Agli sceneggiatori in genere non piace, io invece lo adoro perché le cose che accadono su un set sono vere e finte allo stesso tempo. Una realtà fatta di veri paramedici che rianimano gente per finta, di veri pompieri che usano attrezzi finti, di veri baci finti, di auto che vengono distrutte davvero. Un marasma complesso in cui tutto arriva sempre al punto di fusione tra la realtà e la fantasia.
Una sera di giugno eravamo alle prese con la realtà. Una finta realtà, chiamata piuttosto realismo, ma eravamo ben intenzionati a rendere vera la fantasia di una storia cruda ambientata alla foce del Tevere, tra baracche e gangli di cavi elettrici.
La scena la girammo in una stradina malfamata e buia che avevamo chiuso al traffico per un centinaio di metri. La troupe era schierata su un lato della via, tutti dietro alla macchina da presa e all’illuminazione per girare un campo lungo sull’altro lato. Di pellicola ne avevamo poca, davvero poca, e così avevamo provato quel piano sequenza più volte e ci accingevamo sicuri al primo ciak, che con un po’ di fortuna sarebbe stato anche l’unico. Concentrati e coordinati.
Ciak.
La ragazza era vestita di stracci e procedeva trascinando qualcosa di pesante. Una macchina le tagliò la strada e ne uscirono due loschi ceffi di stazza imponente. Per lei non c’era nulla da fare, poteva dimenarsi e graffiare e mordere quanto voleva ma quelli la sollevavano come un fuscello e la infilavano in macchina e se lei ne usciva con un piede o con un braccio la ricacciavano dentro e provavano a chiudere la portiera senza troppo scomporsi. Ma la donna continuava, lottava e gridava, gemeva e si avvinghiava allo sportello.
Gli attori erano bravi e la scena stava riuscendo davvero bene.
Trattengo sempre il fiato quando si gira, non tanto per paura dei colpi di tosse quanto perché mi emoziono, il cuore va a mille e lo sguardo si fissa nel monitor ad assaporare la magia della creazione cinematografica.
Venti persone di troupe erano immobili come me, con il respiro mozzato, attendendo lo stop del regista.
Due persone bloccavano al traffico i centro metri di strada, uno all’inizio e uno alla fine.
Un cancelletto si aprì, ma nessuno lo vide.
Un motorino sfrecciò fuori con a bordo due ragazzini. Quindicenni minuti docciati di fresco per una sera al pub.
Ce lo trovammo davanti quel motorino, all’improvviso, completamente in campo. I ragazzini guardavano solo da una parte, verso la donna che gridava e si aggrappava disperatamente alla portiera.
Inchiodarono.
Si gettarono verso l’auto.
E la vennero a salvare.
La troupe rimase per un secondo immobile, sconcertata, impreparata a quell’onda di realtà che si infrangeva dentro il nostro monitor.
Poi io urlai.
“E’ un film, è un film!”
E i ragazzini si fermarono.
Si girarono.
Verso di noi.
Verso di noi ancora belle statuine con microfoni e blocchetti dell’edizione in mano e ancora bloccati nella nostra apnea.
E riprendemmo tutti a respirare. A respirare piano. Noi, gli attori e i ragazzini.
Scoppiò l’applauso. All’unisono, senza parole, fottendosene della pellicola sprecata, dimenticando per sempre il detto delle nostre nonne che invece che gridare Allo Stupro bisogna gridare Al Fuoco , la troupe rendeva omaggio a quei due ragazzi mingherlini che in una strada malfamata si erano fermati a salvare una donna sconosciuta dalle grinfie di due bruttissimi ceffi grossi e probabilmente armati.
L’applauso.
L’applauso era VERO.
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La foto invece è finta, una diapositiva di scena
Si parla di femminicidio con l’hashtag #nonunadimeno
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