Sono passati cinque anni dagli eventi fantastici, quasi mitologici, di quell’estate del 2010 che mi portarono per la quarta volta in Mexico. Un’estate vissuta intensamente in cui il mondo che mi si parava davanti appariva enorme e la mia storia ancora tutta da scrivere. Uno stato di grazia come ce ne sono pochi nella vita e molti nelle canzoni.

Quando vai in Centro America così, è fisiologico finire travolta da meravigliose avventure. Ne avevo il chiaro sentore già mentre chiudevo il mio zaino rosso per andare in aeroporto.

Tornavo nel mio Centro America.mexico10_022

Non voglio deluderti, ma non ricordo esattamente l’istante in cui lo vidi per la prima volta. Probabilmente fu al check-in del nostro volo, quella mattina, perso in una folla di gente sveglia troppo presto. Ma ricordo benissimo che mi trovai magicamente seduta accanto a lui e che le ore di volo corsero via in una stimolante conversazione su tutti i dischi che avevamo ascoltato e i libri che avevamo letto e le manifestazioni e i concerti epici a cui avevamo partecipato.

Arrivammo a Ciudad de Mexico e ci immergemmo nella grande città, tra colossali rovine azteche e moltitudini umane, iniziando un viaggio che ci portava sempre più a sud, nell’anima vera di questo grande paese, tra le rivolte dei professori di Oaxaca e le possenti onde del Pacifico, a contemplare l’infinito dalle piramidi di Monte Alban e dalle montagne di Hierve el Agua, fino al Chiapas.

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E poi ci fu il giorno in cui tutto accadde. Ma proprio tutto, come in un’improbabile candid camera organizzata da qualche network delirante.
Era mattina e ci eravamo svegliati presto alla nostra posada. Mao stava per partire con un gruppo per il canyon del Sumidero. Io no perché lo avevo già visto ed ero ben intenzionata a rimanere a godermi San Cristobal de las Casas. Una giornata che si prospettava tranquilla.
E invece no.
Accadde l’impossibile o, beh, almeno l’improbabile, per cominciare: due turisti nordeuropei in partenza per il terminal del bus caricarono per errore un bagaglio sul loro taxi. Era lo zainetto di Mao, con dentro il maglione, il kway, gli occhiali da sole, soldi, bancomat, cellulare… e il passaporto. Il tempo di rendercene conto, la corsa al terminal del bus e… tassista sparito. Aveva detto ai turisti che sarebbe tornato a riportare lo zaino, quelli non avevano segnato il numero del taxi.
Ovviamente non tornò mai.

Cosa fai quando ti trovi in una città come san Cristobal de las Casas senza soldi né passaporto? Le persone normali si angosciano, sbraitano, danno in escandescenza e se la prendono con tutti. Mao non sembrava affatto agitato né tantomeno arrabbiato. Solo un po’ infreddolito, e gli prestai un maglione che avevo appena comprato, quello marrone, di lana calda e morbida, che tu conosci. Poi l’iter solito: una telefonata per bloccare la carta di credito, una vana visita alle compagnie dei taxi, un’andata alla polizia per fare la denuncia, ma infruttuosa perché c’era fila, e rimandammo la cosa alla sera.

Al crepuscolo io e Mao ci ritrovammo al tavolino di un’enoteca a bere un bicchiere di vino messicano, non eravamo riusciti a combinare nulla ma almeno ci facevamo un aperitivo. Arrivato il conto pagò Mao. Ma come? Erano gli ultimi pesos che teneva in tasca e mi offriva da bere! Chi era questo ragazzo?

Facemmo un passaggio al bancomat. Io ne avevo ancora uno e potevo tranquillamente prelevare e prestare dei soldi a Mao.
La macchina ingoiò la mia carta.
Non restituì nulla in cambio, neanche la carta.
Non ce ne andava proprio bene una.

Dopo cena tornammo alla polizia lasciando i nostri amici a bere rum al Revolucion. Erano le dieci di sera e con l’amico messicano Javier arrivammo alla questura.
La stazione di polizia era un casotto semplice di quattro o cinque stanze, in periferia. Gli agenti persone normalissime, nessuno in divisa. C’era la signora grassa, c’era il nerd con il cappellino da baseball, c’era quello con i brufoli da quindicenne che ascoltava musica rock in cuffia. Erano come non ti aspetteresti mai dei poliziotti messicani. Gentili, onesti e corretti.

Una volta stilata la denuncia, il problema era protocollarla e farne una copia; la signora grassa sorridendo ci chiese se preferivamo aspettare qualche minuto oppure tornare l’indomani. Il nostro amico Javier rispose per noi: adesso. E così ci sedemmo buoni buoni in sala d’aspetto, su una panca che dava le spalle alla vetrata d’ingresso, tra altri cittadini che facevano la fila per denunciare questa o quell’altra cosa. Eravamo gli unici stranieri.

Poi tutto accadde in fretta.
Le grida, la gente che fuggiva.
Io e Mao ci ritrovammo soli nella sala d’aspetto, a chiederci cosa stesse succedendo. Bastò girarsi verso la vetrata alle nostre spalle per capire.
Oh oh.
Un centinaio di indios con pietre e bastoni avevano circondato la questura.

“E’ una candid camera” mormorò Mao.

Non lo era, e fuggimmo anche noi nel retro della questura, negli uffici dei poliziotti, che erano più spaventati di noi. La signora grassa e il nerd con il cappellino si guardavano smarriti, quello che ascoltava musica rock aveva poggiato le cuffie sul tavolo. Nessuno aveva ancora preso in mano un telefono e questo ci rassicurò perché la paura più grossa per noi era che questa polizia chiamasse L’ALTRA polizia, e tutti immaginiamo quale.
Dal retro spuntò il capo della questura, uomo serio ma dai tratti gentili, accompagnato da un giovane poliziotto in divisa che barcollava insicuro con un mitra in mano. Non lo impugnava, lo reggeva sul manico, con due dita, come se pungesse. L’unica arma presente in questura. Il ragazzo la portò nell’atrio e ne fece bellavista agli indios che stazionavano immobili dall’altra parte della vetrata. Poi se ne tornò al sicuro del suo ufficio.

Dopo l’esibizione di forza – nostro mitra contro 100 bastoni e 100 pietre loro – tutto si fece silenzioso, sia dentro che fuori.
“Stallo alla messicana” commentai io “prepariamoci a dormire qui”.
“Forse dovremmo avvisare gli altri” suggerì Mao, ma mi fermò non appena misi mano al cellulare: “Non spaventarli però”.
Giusto. Con calma scrissi il seguente sms: “Facciamo tardi. Gli indios hanno attaccato la questura con pietre e bastoni. Non ci aspettate alzati”.
Al Revolucion lo lessero e lo tradussero a modo loro, innalzando i calici alla nostra salute.

Il capo della questura fece quella telefonata che temevamo. Ci immaginammo crivellati dal fuoco mica tanto amico dell’esercito governativo che assaltava gli assaltanti. Invece nulla accadde e il tempo passava. Mi fumai una sigaretta nel cortiletto interno.

Il capo della questura venne da me. Ecco, pensai, vuole sapere di che nazionalità sono per farmi avvisare il mio Ministero degli Esteri ma non sa che sono italiana e che la Farnesina è famosa per complicare le situazioni semplici e per far venire infarti ai parenti a casa. Gli dirò che sono svizzera.

Invece voleva solo il mio accendino.

Fumando ci spiegò che gli indios erano quelli di Chamula e che stavano chiedendo la liberazione di un loro familiare arrestato da un’altra questura. Non lo disse, ma capimmo che avevano scelto di sequestrare noi perché rappresentavamo un obiettivo non ostile.

Le ore passavano e il capo della questura fece altre telefonate. Di rinforzi non si vide l’ombra. Per fortuna.

Io dovevo fare pipì. Andai dalla signora grassa a chiederle indicazioni per il bagno. Il bagno c’era, ma era nell’atrio, davanti agli indios che ora avevano aperto le porte e stazionavano schierati sulla soglia.

Io dovevo fare pipì e andai nell’atrio.
“Hola gente” mi presentai agli indios “Tiengo solo que ir en bano”.
Quelli mi fecero passare. Al ritorno li salutai e tornai negli uffici.

Mao mi annunciò che c’erano novità: una trattativa.
Due rappresentanti degli indios entrarono nella questura. Erano gli anziani del villaggio: una coppia di vecchini. Lui con il bastone e lei con la tipica gonna di pelle di pecora.
Il capo della questura li fece accomodare in una stanza. Mao entrò a ruota. “Dove vai?” gli feci io. “La trattativa non me la perdo” rispose lui, e visto che nessuno ci diceva nulla entrammo.
La trattativa non era in spagnolo ma in lingua tzotzil, che il capo della questura capiva benissimo e noi per niente. Quindi non so dirvi cosa decisero, so solo che funzionò: i vecchini uscirono e gli indios se ne andarono, tutti.

Eravamo liberi.

Nella notte buia di san Cristobal de Las Casas io e Mao prendemmo un taxi e tornammo alla nostra posada. I nostri amici non ci avevano aspettati alzati.

Cosa fai quando ti capita una giornata del genere? Vai a dormire?
Ma no! L’adrenalina è ancora alle stelle e non si può soffocarla con il sonno.
Con il Mezcal, forse.
Quando ti capita una giornata del genere in una città del genere ti attacchi alla bottiglia controllando bene che il verme non scenda e poi ti dai un bacio e un altro ancora perché la vita è un fluire senza posa di piccoli e grandi tsunami che ti investono, ma tu puoi remare controcorrente.

Adesso sei piccola, ma lo imparerai a poco a poco e riuscirai a galleggiare da sola. Andrai dritta per la tua strada, non ti curerai di quelli che non ti capiranno, non ti curerai di quelli che non ti crederanno, soprattutto quando gli racconterai come si sono conosciuti la tua mamma e il tuo papà.

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Sarita

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Questo articolo ha 6 commenti

  1. simone

    bel racconto.
    agosto del 2010 , e io non ho più riso come quelle notti insieme a quel papà …

  2. Anja

    Woow !! Che fantastica avventura !! E che originalissimo modo di “trovarsi” … senza cercarsi 🙂

  3. Luigi

    la prossima volta mi porti con te ? 🙂
    bella storia e bel racconto.

  4. sarita

    Grazie Grazie !!!

    Non so per quale strana ragione ma in viaggio catalizzo sempre avventure, in genere molto belle 🙂

    Forse sono belle grazie all’ottimismo di fondo che mi porto sempre nello zaino. Magari qualcun altro avrebbe scritto un racconto dal titolo “Il Mexico è pericoloso, infatti mi hanno sequestrato gli indios”.
    Un’altra volta sono rimasta bloccata in mezzo alla jungla, ho chiesto un passaggio in idrovolante e ho fatto uno dei voli più belli della mia vita. Questa la devo scrivere, sisisi.

    Sarita

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