Questo è l’articolo più rubato e plagiato di tutto il mio blog. Se lo trovi da qualche altra parte in giro per internet, segnalamelo, perché di sicuro lo hanno rubato!
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Leggilo qui su SaritaLibre.

Dimenticare lo sterminio, fa parte dello sterminio.
(Jean-Luc Godard)

Ogni parola detta o pensata in merito all’inferiorità o alla pericolosità o anche solo alla diversità di una razza, di una religione o anche solo di una categoria di esseri umani è un passo, lungo o corto che sia, verso questo.

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Non c’è appello, non ci sono scusanti o negazionismo storico che tenga. Chi visita il campo di sterminio di Auschwitz Birkenau lo capisce fin dall’ingresso che da oggi alcune parole non le userà mai più.

Il viaggio di andata l’ho fatto in bus, poco più di un’ora di strada attraversando boschi di conifere. Il giorno prima era estate a Cracovia e le studentesse avevano tirato fuori short e canottiere dagli armadi.
Ora, davanti all’ingresso del campo di concentramento e sterminio di Auschwitz tremo di freddo sotto una pioggia fitta e sottile. Penso che forse ci sono luoghi dove la primavera non arriva mai, la coltre di orrore è troppo fitta perché i raggi solari possano scalfirla.

Mi avevano avvertita che questo luogo provoca emozioni squassanti, che ci si abbatte, che è inutile solo pensare di poter uscire con gli amici alla sera, che si scoppia in lacrime.
A me non è successo nulla di tutto questo.

Mi unisco ad una visita guidata in italiano. La guida è una bella ragazza polacca. E’ sorridente e insieme seria. Nel gruppo ci sono diverse coppie di ragazzi italiani e tre suore.
Cammino per questo luogo atroce e non sono triste. E non sono allegra.
Non sono.
Solo un paio di volte verso la fine e in luoghi inaspettati le lacrime mi salgono agli occhi ma le ricaccio via. Lacrime no, mi offuscano la vista e io no, cazzo, devo avere la forza di guardarlo nitidamente questo posto e imprimermelo nel cervello. Perché quello che voglio è non dimenticarlo mai.

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Ciò che scatena Auschwitz nella mia anima è la necessità di studiarlo e di studiare la vita delle persone che sono vissute, morte e sopravvissute qui. Una ad una. Con i loro veri nomi. Con le loro facce. Con le loro storie.
Queste erano proprio le cose che i nazisti volevano cancellare.
Visto? Non ci sono riusciti.
Vi confesso che solo ora, mentre sto scrivendo queste parole, piango.

Treni, treni che arrivavano da tutta Europa.

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Treni merci, piccoli vagoni di legno usati per le mucche in cui venivano stipate anche ottanta persone. Vagoni piombati, chiusi ermeticamente come si fa con le bare.
Dentro c’erano famiglie intere, al momento dell’arresto gli veniva detto di portare tutte le cose di valore che possedevano e cibo per tre giorni. Non veniva comunicata loro la destinazione, salvo quando, mentendo, gli dicevano che stavano andando in un “campo per famiglie”. La prima delle innumerevoli bugie naziste.
Non ci volevano tre giorni per arrivare ad Auschwitz, ce ne volevano molti di più. Primo Levi viaggiò per 5 giorni, Piero Terracina per 7. Si erano portati cibo ma non acqua e soffrirono la sete, ammassati l’uno sull’altro senza poter stare né sdraiati né seduti, per cinque giorni, in piedi come animali. I treni dalla Grecia erano peggio, ci mettevano quasi due settimane. Shlomo Venezia arrivò da Salonicco e racconta che molti morivano durante il viaggio e i loro cadaveri rimanevano dentro, ammassati ai vivi.
Tutti i sopravvissuti raccontano che quello che non riusciranno mai a dimenticare all’interno di quei treni era il pianto dei bambini.

Poi si arrivava, di notte, le porte si aprivano e chi era ancora vivo scendeva sulla rampa di Birkenau, Auschwitz II, il Vernichtungslager, il campo di sterminio.

Il binario di Birkenau è al centro di un campo smisurato ed è ancora circondato ai due lati dal filo spinato in cui passava la corrente elettrica. Sul binario c’è un vagone in legno e mi sembra così piccolo per contenere tutte quelle persone. E così innocuo.

Le valigie venivano lasciate sul binario e in quel momento si consumava una delle tragedie più atroci: le famiglie venivano divise. I mariti separati dalle mogli, le madri dai figli. Riuscite a immaginare l’angoscia che potevano avere ad essere separati dalle persone che amavano?
Goti Bauer e Liliana Segre furono separate dai loro papà. Venivano divisi in file di uomini e donne, poi in file di vecchi, file di giovani e file bambini. Piero Terracina fu separato da sua mamma e sua sorella. Racconta scene terribili di mamme che urlavano cercando di non farsi strappare di mano i loro bambini.

Ci avviamo sulla strada sterrata Fa ancora freddo e mi riparo dietro l’ombrello.
E’ a pochi metri dal binario che avveniva la prima selezione.
Guardate questa foto dell’epoca

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Qui si vede benissimo un medico delle SS che seleziona gli abili al lavoro. Il signore anziano con il bastone non lo è, e viene indirizzato verso un’altra fila.

Scartavano sicuramente chi aveva più di cinquant’anni, le donne incinte, i malati e, senza appello, i bambini. A volte scartavano tutti.

Sappiamo dove finiva la fila degli inabili al lavoro. Direttamente alla camera a gas. E i loro corpi immediatamente nei crematori. Sul treno di Primo Levi c’erano 650 persone. Quattro quinti del treno è stato ucciso la notte stessa dell’arrivo. Di 650 partiti alla fine ne sopravvissero 3.

A Birkenau, all’avvicinarsi dell’esercito russo, le SS fecero saltare i giganteschi quattro crematori che c’erano, in un vano e grottesco ultimo tentativo di cancellare le prove dei loro crimini. Oggi se ne possono vedere le macerie.

Se non sapete come funzionavano camere a gas e crematori leggete il libro del sopravvissuto Shlomo Venezia (“Sonderkommando Auschwitz”) oppure cercate qualche sua intervista su youtube. Shlomo, che tagliava i capelli dei cadaveri delle camere a gas, racconta tutto con un’impensabile lucidità e dovizia di particolari. Quanto basta – e anche di più – per far chiudere la bocca ad ogni revisionista della domenica.

I capelli, assieme a tutto, tutto ciò che i tedeschi potessero raggranellare dalle loro vittime, venivano portati nei due grandi magazzini. Erano chiamati Canada perché allora il nome di questa nazione evocava un senso di abbondanza.

Con la nostra guida andiamo a vedere ad Auschwitz I ciò che non è stato portato a Berlino e venduto. Cataste alte diversi metri di oggetti, centinaia di migliaia di cose tirate fuori dalle valigie dei deportati e accumulate insieme. Occhiali, scarpe, denti d’oro estratti ai cadaveri, spazzolini da denti, protesi, spazzole per capelli, stampelle, pennelli da barba e una stanza piena, colma fino al soffitto, di capelli umani.

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Auschwitz I era il Konzentrationslager , il campo di concentramento.
Passiamo sotto l’insegna di ferro “Arbeit macht frei”, una delle tante bugie dAuschwitz SaritaLibre.it_07ei tedeschi.

“Il lavoro rende liberi” era il benvenuto per i pochi schiavi che rimasti orfani e vedovi venivano spogliati, rapati, rasati, umiliati e spersonalizzati. Dopo aver superato la prima selezione non avevano acquisito il diritto a vivere ma solo il diritto a vivere provvisoriamente. Il numero tatuato che gli ardeva sull’avambraccio sarebbe stato l’unico segno di riconoscimento per la loro provvisoria vita di forza lavoro. Per i tedeschi essi non erano che un numero.

Ad Auschwitz – Birkenau i tedeschi avevano calcolato che un prigioniero, con le sue risorse di adipe di prima della deportazione più la scarsa alimentazione del campo, poteva sopravvivere due o tre mesi. Non di più. Ed era quello che gli bastava.

Nel museo c’è questa ricostruzione del pasto giornaliero dei prigionieri. Fa rabbrividire.

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Al mattino un liquido che non era né tè né caffè ma un infuso di erba senza neanche lo zucchero.
A mezzogiorno una zuppa liquida fatta con verdure rancide e immondizia. I prigionieri la chiamavano “zuppa a sorpresa” perché spesso vi si trovava dentro di tutto, compresi chiodi, bulloni, terra.
Alla sera un pezzo di pane e un cucchiaino di margarina o marmellata.
Basta.

Ho visto un’intervista a Primo Levi degli anni Ottanta: lui in visita ad Auschwitz. Trovava grottesco il fatto che oggi, all’ingresso del campo-museo, ci sia un ristorante. Levi è sopravvissuto undici mesi e sosteneva che la ragione principale fosse la fortuna. Ragioni accessorie, ci teneva a precisare, erano il fatto che conoscesse la lingua tedesca, la salute, l’età e il suo impiego al coperto in una fabbrica chimica del campo di Monowitz, o Auschwitz III, che ora non esiste più.

Periodicamente i medici delle SS facevano ulteriori selezioni e mandavano alle camere a gas i più deperiti.
A Auschwitz I c’è ancora una camera a gas, con annesso crematorio. La più vecchia, nata prima della costruzione delle grandi di Birkenau.
Ci entriamo dentro.
Il comandante di Auschwitz, un tizio di cui non mi sforzerò di ricordare il nome, abitava con la moglie e i figli nella villa in fondo al viale. I suoi bambini giocavano nel prato mentre le urla di terrore di chi stava morendo per il gas venivano coperte dal motore di un camion.

Quello che non riuscivo neanche lontanamente a immaginare prima di visitare Auschwitz era l’imponenza e la meticolosità di questo immenso progetto di sterminio concepito da un popolo occidentale in un’epoca moderna.

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Qualche nota tecnica

Visitare Auschwitz-Birkenau è semplice, è a poco più di un’ora dalla bellissima città di Cracovia. Ci si arriva in bus dalla stazione centrale degli autobus di Cracovia (situata in centro, accanto alla stazione ferroviaria). Costo del bus circa 3 euro a tratta. Parte ogni 40 minuti.
Il gigantesco museo nato nel campo è aperto tutti i giorni. Bisogna però prenotare.
Le visite guidate sono nelle maggiori lingue del mondo, compreso l’italiano. Le guide sono davvero brave, professionali e con un umanità fuori del comune. Tre ore e mezza sono forse un po’ poche ma esiste, per gruppi, anche una visita studio più accurata di 6 ore. Ed è questa che vi consiglio.
Il museo concede molto spazio a ciò che i nazisti hanno tentato di distruggere: le persone e la loro memoria.

Qualche nota meno tecnica

Ogni anno il 27 gennaio, che è il giorno prima del mio compleanno, mi attacco a youtube e riascolto i racconti di quegli splendidi vecchietti che da sessant’anni danno la loro testimonianza su ciò che è accaduto qui. Liliana Segre, Goti Bauer, Piero Terracina, Primo Levi e molti altri. Ogni anno ce n’è uno di meno e io penso che quando morirà l’ultimo di loro l’umanità sarà in pericolo.
Ne so di Auschwitz, ne so parecchio. Ma è la prima volta posso toccare e respirare ciò che ho solo visto in tv, letto e sentito raccontare.
Questa settimana il mio studio l’ho fatto anche fuori stagione, una settimana a studiare e scrivere questi appunti.

Lo studio sull’Olocausto è per me un’esigenza. Mi serve per assicurarmi che non dimenticherò mai, ma anche, e soprattutto, per capire, per vedere se sotto sotto c’è un senso in questa follia e per essere sicura al cento per cento che non ci sia.
E non c’è.

Io non vedo e non capisco la differenza tra la pelle nera e quella bianca. Non vedo e non capisco la differenza tra chi è eterosessuale e chi è omosessuale. Non vedo e non capisco la differenza tra chi nasce o diventa di una religione, di un’altra o di nessuna.
E sono davvero contenta di non vederle e non capirle*.

A chi la vede ho chiesto molto volte di spiegarmela. Non ci sono riusciti.

Sul bus chiacchieravo con una ragazza messicana che mi ha chiesto se da noi in Italia c’è razzismo.
Non posso che rispondere di si. Abbiamo anche un partito politico razzista, che si chiama Lega Nord, sei esponenti del partito sono stati condannati per incitamento all’odio razziale. Abbiamo coniato il termine “extracomunitario” per definire i soli immigrati provenienti da paesi in via di sviluppo mentre nella lingua italiana dovrebbe voler indicare solo chi viene da fuori la UE. Vediamo in televisione fiction di propaganda come quelle del regista Renzo Martinelli, che in una lezione alla Rai in cui ero presente ha ammesso di non conoscere la differenza tra le parole islamico e mediorientale e non sapeva che anche gli abitanti delle Maldive sono islamici. Abbiamo chiamato “centro di accoglienza” il Konzentrationslager di Lampedusa.

Tutte queste parole nate dall’ignoranza come ho scritto all’inizio sono un passo, lungo o corto ma sempre un passo, verso questo.

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L’unica cosa che possiamo fare forse è proprio combattere questa ignoranza e spiegare alla gente che dovrebbe collegare la bocca al cervello.

Quello che vi raccomando infine è di non considerare le vittime di Auchwitz, anche se sono tantissime, come dei numeri o una massa, di non dividerle mentalmente in generi o nazionalità o per razza e religione. Piuttosto soffermatevi a osservare le singole foto dei deportati, a leggere ad alta voce i loro nomi.
I nazisti volevano eliminare tutte queste persone, non volevano solo ucciderle ma anche cancellare il fatto stesso che fossero mai esistite. Gli toglievano il nome e le riducevano ad un numero.
Ma la popolazione mondiale è da sessant’anni impegnata a ricordare tutte le persone che sono morte nei campi di sterminio, ad una ad una e per nome. Unitevi anche voi.
I nazisti hanno perso. E non solo la guerra.

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Sarita, maggio 2012

* Rileggendo questi appunti prima della pubblicazione mi sono accorta che non ho praticamente mai usato il termine ebrei anche se la stragrande maggioranza della vittime di Auschwitz lo erano. Nel mio racconto ho usato sempre il termine persone. Non era voluto.
So benissimo che l’intento nazista era cancellare dalla faccia della terra la “razza ebraica”.
Quel milione e trecentomila persone erano arrivate qui solo perché erano ebrei, rom, sinti, testimoni di Geova, omosessuali, oppositori politici. All’arrivo dei russi il 27 gennaio 1945 ce n’erano vive solo 7000.

 

 

 

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Questo articolo ha un commento

  1. Ho pianto…sentendomi in colpa anche, perché poco o tanto tutti siamo razzisti una volta o tante. Chiedo scusa per questo. Grazie Sarita per questo splendido testo

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