Oggi è il 3 ottobre 2017, un altro 3 ottobre. Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione.
La data è stata scelta per ricordare il terribile naufragio del 3 ottobre 2013 poco a largo di Lampedusa. 368 morti. Uomini, donne, bambini.
Avrebbero potuto scegliere anche altre date, l’11 ottobre, il 18 aprile, 29 aprile, l’altro ieri. C’è l’imbarazzo della scelta. Si poteva anche trovare un giorno dell’anno senza morti in mare e commemorare quello come il giorno in cui nessuno è morto nel Mediterraneo. Ma probabilmente non esiste un giorno così.
Commemorazione. Parata di politici. Bandiere.
Oggi pomeriggio a Lampedusa arriverà persino il Ministro Minniti.
(Con che faccia non riesco ad immaginarlo).
Cosa commemoriamo? Ma soprattutto CHI commemoriamo?
Ho telefonato poco fa al sindaco di Castellammare del Golfo, Niccolò Coppola per fargli questa domanda. Il problema lo conosce bene perché nel cimitero comunale ha dato spazio a 70 tombe di vittime del mare. Un bello spazio, nel verde. “L’unico caso di sepoltura degna che è stata offerta in Italia”, mi dicono dalle comunità eritree.
Mi manda anche una foto scattata oggi
Nel cimitero di Castellammare del Golfo 30 sepolture provengono proprio dal naufragio del 3 ottobre 2013. Ogni vittima ha la sua lapide, sull’erba fresca.
Ma solo 3 lapidi hanno inciso un nome, sulle altre c’è solo un numero.
Perché?
“Purtroppo – mi spiega il sindaco, affranto – su 30, solo 3 corpi sono stati riconosciuti. Degli altri non sappiamo nulla”.
Sono 4 anni che a Castellammare del Golfo aspettano di poter sostituire questi numeri con dei nomi, ma ciò non accade mai.
Anche oggi, come gli anni precedenti, il sindaco e gli abitanti di Castellammare del Golfo si sono riuniti al cimitero per commemorare morti del mare sconosciuti che hanno scelto di adottare. C’erano tanti ragazzi, che hanno deposto fiori sulle tombe senza nome.
E nel resto di Italia, mi chiedo, come va? Commemoriamo persone o numeri?
“Per uno sconosciuto gli sconosciuti non piangono” c’è scritto al cimitero di Lampedusa.
Numeri.
Che raccontano la dimensione del fenomeno in termini di grandezza, si, ma non del tutto la sua tragicità umana perché di umano in un numero c’è poco.
Un numero su una lapide ci racconta tante storie possibili, ma non l’unica vera. Ci racconta la storia di una mamma in Eritrea che ha venduto la sua casa per pagare il viaggio all’unico figlio, per salvarlo dalla morte in patria, per sentirlo magari un giorno ancora ridere. Il suono di una risata, si, quello forse vorrebbe sentire. Invece il telefono le restituisce un cimiteriale messaggio di “non raggiungibile”, da mesi, sempre lo stesso. Ci racconta le storie di madri, padri, fratelli condannati a non sapere. Storie di elucubrazioni mentali per cui si preferisce piuttosto immaginare che il proprio caro si sia dimenticato di noi, abbia scordato il numero di telefono di casa, sia arrabbiato addirittura. Tutto invece di pensarlo solo in fondo al mare o solo in fondo alla burocrazia italiana. Che sono due facce diverse dello stesso inferno.
Cosa deve fare un parente per sapere se il congiunto disperso è in un obitorio o cimitero italiano?
Lo chiedo oggi a Giorgia Mirto, ricercatrice universitaria che con il progetto Mediterranen Missing negli anni passati è riuscita a dare un nome a molte vittime del mare e a restituirne i corpi alle famiglie. Ma “Sempre troppo pochi” rispetto al totale dei cadaveri non identificati che il Mediterraneo ci restituisce giornalmente.
L’iter normale del parente di un disperso è quello di contattare la Procura del territorio in cui si pensa sia sparito.
Nel caso dei naufragi è la stessa cosa. Bisogna rivolgersi alla Procura di zona. Quale zona? Dove si pensa che la persona sia o abbia tentato di sbarcare. Bisogna fornire fotografie e magari anche un campione di DNA del disperso.
Fin qui tutto chiaro.
Ma…
Mi scontro con i dati. Per i morti in mare dal 1990 al 2013 il 64% dei corpi ritrovati in mare NON è stato identificato. Dati successivi non ne ho trovati (se qualcuno li ha me li mandi!).
Perché così pochi?
Perché la prassi normale raggiunge pochi o nulli risultati.
Il grosso problema oggi, mi spiega Giorgia Mirto, è che non esiste una banca dati nazionale del DNA.
Abbiamo detto che l’iter normale della ricerca di un disperso prevede di contattare la Procura del territorio dove si pensa sia stato visto l’ultima volta, ma nel caso il parente non sappia dove il disperso è approdato, ciò non è possibile.
Mettiamoci nei panni di…
Per capire, capire bene, i fatti e soprattutto le persone e gli stati d’animo, per me è sempre necessario immedesimarmi. Così lo faccio.
Mi metto nei panni di … una sorella, la chiamo Kissa, che cerca suo fratello, Ato.
Per rendere più semplice la ricerca metto Kissa già in Italia, in Sicilia. Suo fratello Ato, come lei, è fuggito dall’Eritrea e si è imbarcato per l’Italia dalla Libia. Ma in un giorno differente. Kissa è arrivata a destinazione, di Ato invece non si sa nulla, solo che è partito.
Kissa non sa se è approdato. Anche lei ha sempre, tutti i giorni, nelle orecchie la voce asettica di un disco registrato che la informa che il cellulare di Ato non è raggiungibile.
Kissa cerca Ato prima tra le persone vive e poi tra quelle morte.
Inizia il lungo pellegrinaggio per le Procure. Agrigento, Trapani, Siracusa, Catania.
Ma niente. Passano mesi.
Che altro fare?
Kissa è un personaggio di fantasia. Yodit Abraha invece esiste davvero e si trova in Sicilia, è una mediatrice culturale di origine eritrea, un altro angelo che si occupa di dare una risposta a chi la attende.
Oggi ho chiesto a lei cosa dovrebbe fare, nella mia storia, Kissa per cercare Ato.
“Usare il passaparola. Fin dall’inizio” mi risponde Yodit.
Rimango allibita. In un mondo iperinformatizzato ipermeccanizzato iperburocraticizzato il passaparola rimane la strada migliore, come millenni fa.
Yodit mi spiega che la via migliore per avere notizie è quella di contattare possibili compagni di viaggio. Raggiungerli telefonicamente tramite i parenti oppure via Facebook, su cui c’è un continuo tam-tam di foto di dispersi. Mi racconta alcuni casi di persone che sono riuscite a ritrovarsi così, persone morte ma anche persone vive.
Del resto persino Angelo Milazzo, ispettore capo della polizia giudiziaria della Procura di Siracusa, per identificare le vittime dei naufragi usa Facebook.
Si posta un annuncio e c’è tanta gente che lo condivide. Passaparola iperinformatizzato, ma pur sempre il caro vecchio passaparola.
La mia Kissa allora prende una bella foto di Ato, una in cui era felice, e la posta su Facebook aggiungendo altre informazioni: l’altezza di suo fratello, il giorno in cui si è imbarcato, le lingue che parla. Il post viene condiviso da circa 600 persone.
Dopo qualche ora le scrive un rifugiato che si ricorda di Ato sul gommone in cui era lui. Affondato. 36 morti e una decina di dispersi.
Di nuovo alla Procura. Adesso in quella giusta.
In Procura le identificazioni possono avvenire in due modi diversi:
- Per identificazione visiva
- Per identificazione biologica (cioè con prelievo di dna)
In Italia si usa maggiormente l’identificazione visiva. Per esempio delle 368 vittime del naufragio del 3 ottobre 2013, mi racconta Giorgia Mirto, 169 sono state identificate in questo modo e solo 27 grazie al DNA.
Ma quello del 3 ottobre è uno dei pochi naufragi per cui è stata fatta una banca dati del DNA. Che, ricordiamo, non è confluita in una banca dati generale.
Nella maggior parte degli altri naufragi non è stato prelevato DNA oppure sono stati prelevati campioni di tessuti ma non è stato fatto il lavoro di profiling del DNA. Sono state fatte foto, ma non di tutti, per alcuni non si poteva, erano troppo decomposti. In alcuni casi si è fatto un inventario di oggetti e vestiario, ma nella maggior parte dei naufragi no. I corpi sono già stati seppelliti.
Kissa finisce in un cimitero. Davanti ad una serie di lapidi con dei numeri al posto dei nomi.
Ato è sotto una di quelle?
Chiede la riesumazione. Esattamente come l’hanno chiesta le mamme di Nabil, Walid, Wissem, Hamza, Ghassem, Samah, Housemdin e molti altri ragazzi morti (forse…) nel naufragio di Lampedusa del 29 aprile 2011.
L’Italia risponde: non ci sono soldi per la riesumazione dei corpi.
La Legge Internazionale sui Diritti Umani OBBLIGA gli Stati a:
- Identificare i deceduti
- Rispettare i diritti delle famiglie
Il Codice di Procedura Civile italiano invece dice che ciò va fatto OVE SIA POSSIBILE.
In attesa che si sciolga questo conflitto di diritti e interessi il mio personaggio immaginario, Kissa, si staglia impotente contro un orizzonte puntellato da centinaia di lapidi numerate. Accanto a lei, immerse ognuna nella sua diversa preghiera, ci sono tutte le mamme e le sorelle vere.
Tra le cose che ho letto per scrivere questo articolo c’è anche il bellissimo blog di Ali (Alessandra Governa), “Questa Storia”. Ali è stata a Lampedusa e ha raccontato molto bene cosa significhi vivere in un limbo per i parenti di chi è partito e mai arrivato.
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