La Commissione Europea sembra avere a cuore la sorte delle vittime di tratta. Propone una strategia quinquennale di lotta alla tratta di esseri umani, arrivando a pensare di arrestare anche i clienti delle prostitute. Ma non prende minimamente in considerazione la realtà di questi anni: il Governo italiano, con i suoi accordi con la Libia, è il maggior fornitore di schiave sessuali al ramo libico della tratta.

La strategia 2021-2025 per la lotta alla tratta presentata dalla Commissione europea

I presupposti sono buoni: si parla di prevenzione della criminalità, di consegna dei trafficanti alla giustizia e di protezione delle vittime di tratta.

Le azioni che l’Europa propone sembrano dure:

  • smantellamento delle reti (soprattutto online) che mettono in contatto sfruttatori e vittime di tratta
  • “riduzione della domanda”, ovvero criminalizzazione dei clienti delle prostitute sfruttate qui in Europa
  • cooperazione operativa per contribuire a combattere la tratta di esseri umani nei Paesi di origine e di transito

Il terzo punto è molto interessante perché, come denuncio da tempo, in paesi di transito come la Libia poco o nulla si fa per combattere il fenomeno della tratta e ZERO si fa per aiutare le vittime.

A Tripoli le vittime di tratta provenienti da paesi dell’Africa occidentale, ad esempio la Nigeria, non hanno neanche diritto al codice UNHCR. O meglio, il diritto lo avrebbero, ma la realtà è diversa e vengono sistematicamente escluse da ogni tipo di aiuto. Sono totalmente invisibili.

Le vittime di tratta cedute dall’Italia ai libici

Ne ho già scritto mesi fa su Il Manifesto. Ho intervistato ragazze catturate in mare e descritto il terribile percorso che le ha condotte nelle mani dei loro aguzzini. Questo itinerario passa atraverso aerei spia di Frontex, Sophia e Irini, motovedette regalate dall’Italia alla Libia, deportazioni segrete compiute dal Governo italiano, lager finanziati da progetti del Ministero dell’Interno italiano…

Vi faccio uno schema, basandomi sui racconti delle decine di donne vittime di tratta che ho rintracciato in Libia e intervistato:

  • le ragazze arrivano in Libia è lì vengono caricate su gommoni e barche dirette in Europa. In genere viaggiano con uno dei loro aguzzini
  • nella maqggior parte dei casi la loro imbarcazione viene catturata dalla cosiddetta guardia costiera libica, quasi sempre su segnalazione degli aerei spia europei che giornalmente sorvolano la zona SAR libica per individuare imbarcazioni.
  • le motovedette libiche (quasi tutte regalate dall’Italia alla Libia) scaricano il loro bottino nei punti di sbarco libici, a cui ha accesso l’ONU. UNHCR e IOM sono presenti agli sbarchi. Nessun protocollo di individuazione di vittime di tratta pare venga applicato in questo momento né dopo.
  • Dal porto, le vittime del respingimento vengono trasportate nei lager libici.
  • E’ all’interno dei lager libici che, secondo le testimonianze che ho raccolto, le ragazze vengon vendute dalle stesse guardie. Parte di loro finisce nei bordelli, parte nelle case. Ma le condizioni sono purtroppo le stesse: diventano schiave sessuali.

La vendita di vittime di tratta nei lager finanziati da progetti italiani

Già nell’estate 2018 i rifugiati di Tarek al Mattar riuscirono a denunciare alla stampa internazionale la sparizione dal campo di 20 uomini, 65 donne e diversi bambini. «Sono stati venduti come schiavi da Wajdey al Montaser, il direttore», gridarono durante questa rivolta, repressa con frustate e lacrimogeni.

Tarek al Mattar, in quel periodo, pareva sotto il controllo di osservatori indipendenti internazionali. Avevano accesso al campo Oim, Unhcr, le ong italiane che realizzavano i progetti dei bandi Aics e l’ambasciatore italiano in Libia Giuseppe Perrone, che lo visitò il 20 luglio.

Eppure questo non impedì al direttore del carcere di vendere 65 ragazzine. Una di loro era Maryam, che ho ritrovato recentemente. Maryam, catturata in mare, divenne vittima di tratta per la seconda volta quando il direttore di Tarek al Mattar la consegnò a un cittadino libico. Finì in una casa di Tripoli, a lavorare come sua domestica: orari terribili, cibo scarso e stipendio pari a zero. Ma non solo. L’uomo la violentava, continuamente. L’aveva comprata, la considerava sua proprietà.

Come questa, ho raccontato altre storie, tutte con lo stesso iter e lo stesso tragico finale.

leggi tutta la storia su Il Manifesto

Cosa l’Europa non vede (o finge di non vedere)

“Non si capisce perché l’Europa non identifichi e protegga in Libia le vittime di tratta. Sarebbe certamente più semplice evacuarle da sole, senza i loro aguzzini, e strapparle una volta per tutte alle organizzazioni criminali” scrivevo qualche mese fa.

La Libia è un punto di transito chiave nella lotta alla tratta. L’Europa ha già tutti gli strumenti per agire lì. Ma non lo fa.

Se le vittime di tratta potessero accedere all’ufficio di UNHCR che si trova a Tripoli e lì ricevere aiuto e assistenza, verrebbero tirate fuori dalla tratta in pochi minuti le circa 50 ragazze che mi hanno aiutata a scrivere i miei articoli e poi, nel giro di poche ore, le loro centinaia di amiche e sorelle. Sarebbe un buon inizio.

La protezione delle vittime è fondamentale, se si vuole realmente colpire i criminali. Invece qui le vittime vengono abbandonate a loro stesse. Queste ragazze, esposte a mille pericoli e altissimo rischio di retrafficking, sopravvivono a stento per le strade di Tripoli. Molte hanno bambini piccoli, spesso nati dalle violenze subite. Neanche questo riesce ad impietosire le agenzie dell’ONU.

Oggi questa Europa cieca e sorda, dai suoi uffici di Bruxelles, fa i suoi proclami contro la tratta. Ma la proposta di arrestare l’utilizzatore finale (cioè il cittadino europeo che va con le prostitute) su suolo europeo è uno specchietto per le allodole volto a distoglierci dalla realtà: l’Europa – Italia in prima linea – facilità la tratta su suolo libico.

Si può parlare, non a torto, di ESTERNALIZZAZIONE DELLA TRATTA.

Questo articolo è dedicato a Maryam, Samira e Fatima e a tutte le loro e mie amiche che sopravvivono in Libia.

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